Julio Velasco e la nascita della "generazione dei fenomeni"

Il 1° ottobre 1989, l'Italvolley guidata dal tecnico argentino conquistò il primo di una lunga serie di successi


Velasco

Accadde il 1° ottobre 1989, esattamente 25 anni fa.

Il primo muro a crollare non fu quello di Berlino, che pure traballava sinistramente e sarebbe stato abbattuto il 9 novembre successivo. Il primo a essere demolito fu quello dietro il quale giganteggiavano le squadre di pallavolo dell’Est europeo, che instancabilmente e invariabilmente dominavano le competizioni continentali fin dalla loro istituzione. Fino a quell’autunno, si erano disputate 15 edizioni dei Campionati europei e tutti erano finiti oltre la Cortina di ferro. L’Urss, che ai Mondiali del 1986 e alle Olimpiadi del 1988 aveva ceduto la leadership planetaria agli emergenti americani dell’oriundo ungherese Karch Kiraly, aveva una striscia aperta di 9 successi europei: lo squadrone sovietico monopolizzava il gradino più alto del podio da ben 22 anni!

Ci volle un argentino ex-comunista, amante dei romanzi di Emilio Salgari e convinto assertore della scienza applicata allo sport per rovesciare le gerarchie del volley e porre fine alla dittatura delle squadre d’Oltrecortina. Ci volle Julio Velasco, il primo allenatore azzurro a tempo pieno, arrivato sulla panchina della nazionale sull’onda di un profondo rinnovamento della Federazione e dei quattro scudetti consecutivi vinti con Modena. Qui fu baciato dalla sorte e incrociò un drappello di potenziali campioni che non aspettava altro che di essere condotto sulla via della gloria sportiva. Velasco li sgrezzò, li istruì, li privò delle remore psicologiche che ne impedivano la piena espressione agonistica e li trasformò nella “Generazione di fenomeni”, il compatto e talentuoso gruppo di fuoriclasse che issò stabilmente l’Italia al vertice della pallavolo internazionale, instaurando un predominio senza paragoni nella storia dello sport italiano.

Quando il tecnico di La Plata prese il comando delle operazioni, lo stato di prostrazione del movimento azzurro era tale che erano diventati luoghi comuni le consolatorie giustificazioni di tanta povertà di risultati. Il campionato è troppo lungo, si diceva, e i giocatori arrivano stanchi alle competizioni internazionali. Nelle scuole elementari latita l’educazione fisica, la popolazione manca dunque della base motoria necessaria per eccellere nelle discipline meno spontanee. I latini, si sosteneva con tono antropologico, non sono portati per uno sport di concentrazione e di grande disciplina tattica, sono creativi ma incapaci di sottostare alle ferree tattiche e agli schemi che governano la pallavolo.

Frottole, replicò Velasco; quello che conta è allenare bene la nazionale. Un’impresa non da poco, ma non una montagna troppo alta da scalare per uno che aveva fatto i conti con il regime fascista di Jorge Videla: «La dittatura mi costrinse a lasciare La Plata – racconta Velasco - e gli studi di filosofia. Me ne andai a Buenos Aires, dove era più facile nascondersi. A La Plata, molti dei miei amici erano stati già uccisi. Io avevo militato per anni nel partito comunista, ma a quell’epoca non ne facevo più parte. Uno dei miei più cari amici, un anarchico, era sparito insieme al fratello. Un altro era stato ucciso proprio il giorno del golpe, davanti alla porta di casa e alla moglie incinta. Mio fratello più piccolo, Luis, fu prelevato dai militari e non ne sapemmo niente per due mesi».

In meno di un anno, il neo-arrivato scosse dalle fondamenta l’incancrenito edificio della pallavolo nostrana. Fine dei lunghi ritiri collegiali, durante i quali giocatori intristiti disimparavano schiacciate e ricezione, diventando invece dei provetti giocatori di carte. Velasco introduce tournée di 15 giorni e poi a casa, con la famiglia, per distrarsi e rigenerarsi. Sessioni davanti al video seguono gli allenamenti in palestra, si studia se stessi e si passano al microscopio gli avversari. Per ogni giocatore sono redatte schede di rendimento individuali, dove confluiscono i dati di gioco, la cui elaborazione statistica genera le informazioni utili a stabilire chi scende in campo e chi sta a vedere.

Ma Velasco è soprattutto un motivatore, parla con i suoi uomini, li mette di fronte ai loro errori e li sprona incessantemente. A dispetto della bonomia della figura, pretende il massimo e non concede agli atleti la sua rassicurante vicinanza. Non mangia con loro, non è l’amico sulla cui spalla i giocatori possono andare a piangere, non nasconde le difficoltà. Ingaggia una battaglia intellettuale contro l’atavica cultura degli alibi, quella che imputa i fallimenti a fattori che non dipendono dalla squadra; contrasta la deleteria mentalità remissiva, che delega agli stranieri le vittorie in campionato e al futuro i successi della nazionale. È la fine dell’idea dei lenti e progressivi miglioramenti in vista di traguardi sempre posticipati: si gioca per vincere, da subito e sempre.

Dopo un fisiologico periodo di adattamento, i giocatori lo seguono ciecamente. Andrea Lucchetta diventa il suo alter ego in campo. Il palleggiatore Paolo Tofoli esce dal bozzolo e innesca le variazioni dell’attacco azzurro, su cui si scatenano i “martelli” Andrea Zorzi e Luca Cantagalli. L’enfant prodige Lorenzo Bernardi mette al bando le titubanze adolescenziali e si trasforma nel più forte pallavolista del secolo. Tutti sfoderano gli “occhi della tigre”, non una smargiassata da Rocky Balboa e Ivan Drago, ma il segno di un'incrollabile fiducia nei propri mezzi. Il tratto distintivo del sestetto azzurro diventa l’inflessibile determinazione che porta a recuperi portentosi, che trasforma in vittorie memorabili gare quasi compromesse.

Nel settembre 1989, si aprono dunque gli Europei di Svezia. I padroni di casa, pieni di giocatori che dominano nel campionato italiano, puntano alla finale contro i sempiterni sovietici. Sulla carta, l’Italia non ha chance, due anni prima è scesa addirittura al nono posto e segue nei pronostici gli umorali e fisicissimi olandesi e la spumeggiante Francia, vice-campione in carica.

Invece, i ragazzi di Velasco giocano come se non fossero gli epigoni di una tradizione mai sbocciata. Vogliono essere i capostipiti del movimento che verrà. In rapida successione e sommerse da parziali inequivocabili, cadono la Bulgaria e le due Germanie, divise ancora per poco. Il 27 settembre, alla Globe Arena di Stoccolma, l’Italia affronta i padroni di casa e li annichilisce con un nettissimo 3-0. La sconfitta nell’ultima gara del girone eliminatorio contro la Francia è ininfluente, gli azzurri sbarcano in semifinale, dove li attende l’Olanda.

È un’altra partita perfetta. Velasco chiede a Tofoli di variare ossessivamente il gioco per spostare il temibile muro olandese. La ricezione funziona e il palleggiatore esegue. Le bocche da fuoco arancioni sono messe a tacere, gli schiacciatori Ron Zwerver ed Edwin Benne sono ridotti all’impotenza, mentre l’attacco azzurro tocca vette strabilianti di efficienza. Nel terzo e ultimo set, Zorzi & c. mettono a terra il 67% dei palloni che giocano.

Ripresasi dalla débâcle patita contro l’Italia, la Svezia fa il miracolo ed estromette l’imbattibile Urss al termine di un’estenuante battaglia conclusasi 17-15 al tie-break del quinto set. Quello stesso 30 settembre, quasi 7.000 tedeschi dell’Est, rifugiatisi all’ambasciata tedesco-occidentale di Praga, sono autorizzati dal leader della DDR, Erich Honecker, a partire per l’Ovest a bordo di treni speciali. Quella moltitudine era giunta nella capitale cecoslovacca dall’Ungheria, dopo che le autorità di Budapest avevano aperto i varchi di frontiera. I convogli diretti verso l’Occidente, con a bordo i festanti ossis, passano per la Germania Orientale e accendono la scintilla di proteste e manifestazioni che sarebbe sfociata nell’abbattimento del Muro di Berlino. Così, le coordinate della pallavolo europea e mondiale non potevano essere sovvertite in un giorno più simbolico: per la prima volta nella storia della rassegna continentale, due squadre occidentali si affrontano nell’atto conclusivo.

La finale è in programma nel giorno dell’undicesimo anniversario dell’argento che l’Italia aveva sorprendentemente conquistato ai Mondiali del 1978. Allora, sospinta dal pubblico romano, aveva superato Cuba in semifinale, prima di cedere nettamente all’inesorabile Unione Sovietica. Quell’inaspettata cavalcata aveva familiarizzato gli italiani con uno sport nuovo e accattivante, ma era rimasta un fiore nel deserto, un unicum cui non erano seguiti un incremento costante di popolarità, né successi degni di nota, se si fa eccezione per il bronzo olimpico del 1984, nell’edizione boicottata dai paesi comunisti.

Di nuovo nel palazzetto della capitale, gli uomini di Velasco rimangono attanagliati dalla tensione per un lungo primo set, che la Svezia si aggiudica ai vantaggi. Poi, sprigionano le loro risorse tecnico-tattiche e demoliscono i padroni di casa in tre rapidi set, conquistando il primo trofeo internazionale della pallavolo italiana.

La nazionale che vinse il titolo europeo a Stoccolma

La nazionale che vinse il titolo europeo a Stoccolma

Quella vittoria fece da apripista a un decennio memorabile, durante il quale il Dream team azzurro accumulò tre titoli mondiali, altri tre ori europei e svariate edizioni della World League. Unico neo di un dominio altrimenti incontrastato, lo sfuggente oro olimpico, sempre sottratto agli azzurri dagli olandesi, prima nel 1992 e poi nel 1996, quando i tulipani prevalsero per 17-16 all’ultimo set.

Sul senso di incompiutezza lasciato dalle amarezze a cinque cerchi, è bene lasciare la chiusa ancora a Velasco, che così parlò alla trasmissione “Il laureato” di Piero Chiambretti: «Chi fa sport sa che non si può vincere sempre. L’eccezione è vincere sempre, la norma è un’alternanza tra vittorie e sconfitte. Io ho sempre detto che sono molto orgoglioso della nazionale che ha vinto mondiali ed europei, ma sono altrettanto orgoglioso della squadra che ha perso le Olimpiadi. Perché ha saputo perdere. Quando abbiamo perso non abbiamo detto: è colpa dell’arbitro, siamo sfortunati, la Federazione non ci ha appoggiato, è colpa di un giocatore, dell’allenatore, di quel dirigente. Abbiamo detto: l’avversario è stato più forte di noi, punto e basta».

Paolo Bruschi