Quando Helena Sukova ricordò a Martina Navratilova il significato della sconfitta

30 anni addietro, un adolescente pose fine alla più lunga serie di vittorie mai registrata nel tennis professionistico


Navratilova e Sukova nel 2009 a Wimbledon con il trofeo del doppio per le veterane

Navratilova e Sukova nel 2009 a Wimbledon con il trofeo del doppio per le veterane

Martina Navratilova passò buona parte degli anni ’80 a strapazzare le avversarie che le si paravano davanti. Fra il 1982 e il 1986, vinse il 95% degli incontri disputati e ancora alla fine del decennio fu capace di elevarsi oltre la simbolica barriera del 90%, benché fosse comparsa Steffi Graf a sottrarle lo scettro di n. 1 del ranking mondiale.

Nel 1983, la mancina nata a Praga mise insieme un irripetibile record di 86 vittorie contro una sola sconfitta, mentre l’anno successivo inanellò qualcosa come 74 successi consecutivi, stracciando ogni precedente record del tennis professionistico, sia maschile che femminile. Riuscì persino a spingere alla sottomissione l’altra campionessa dell’epoca, Chris Evert, la sua più fiera e attrezzata antagonista. Dopo aver ceduto la finale di Flushing Meadow del 1984, in quella che fu la sua 13esima sconfitta consecutiva nei testa-a-testa, Chris fu costretta a riconoscere, con un sospiro rassegnato, che giocare un buon match non bastava più per superare Martina.

Fra il serio e il faceto, il mondo del tennis prese a interrogarsi sul sistema migliore per arginare tanto strapotere. Chi propose che Martina fosse costretta a giocare di destro, chi maliziosamente suggerì un esame ormonale, chi la invitò a iscriversi ai tornei maschili. L’istrionico Vitas Gerulaitis sbottò. Era stufo di vedere Navratilova accostata addirittura al parimenti dominante John McEnroe e scommise la sua casa che Martina non sarebbe stata in grado di battere il n. 100 della graduatoria degli uomini, né il suo allenatore. Quel ragazzaccio di Ilie Nastase, ormai 38enne e classificato oltre il n. 400, irruppe nella querelle da par suo, offrendosi di sfidare l’invincibile amazzone, con indosso un abito femminile e una permanente di ricci sormontata da una corona papale. Sommessamente, ma autorevolmente, Evert ricordò a tutti che lei, vincitrice seriale di slam, perdeva sistematicamente dal fratello John, un giocatore dilettante della Vanderbilt University. Unendosi alla mischia, Martina affermò modestamente che forse avrebbe passato le qualificazioni, se iscritta al tabellone maschile.

Come sovente accade, la nemesi di Martina comparve inaspettata, sotto le spoglie di Helena Sukova, una spilungona adolescente, proveniente dallo stesso paese dal cui seno Martina era fuggita nel 1975. Per i suoi 19 anni, infatti, la boema aveva disertato per riparare negli Stati Uniti, da cui ottenne immediatamente l'agognata green card e la cittadinanza nel 1981. Si trovavano ora di fronte, la ceca eretica e quella ortodossa, nella semifinale degli Australian Open del 1984. Sukova vi era stata ammessa come testa di serie n. 9, frutto dei quarti raggiunti nel settembre a New York, fermata con un doppio 6-3 proprio da Navratilova. In novembre, la ragazzona aveva vinto il suo primo torneo, a Brisbane, ma senza scalpi di grande prestigio. A Melbourne, invece, vinse facilmente nei primi due turni; negli ottavi estromise la n. 5 del seeding Claudia Kohde-Kilsch e nei quarti Pam Shriver, accreditata del n. 3 e compagna storica di doppio proprio di Navratilova.

Dopo aver vinto a Parigi, Wimbledon e Flushing Meadow, Martina inseguiva il Grande Slam, la vittoria in tutti i major del circuito nello stesso anno solare. Dal 9 gennaio, quando era stata sconfitta dall’altra connazionale Hana Mandlikova nella finale del Virginia Slims di Oakland, il suo ruolino di marcia non aveva conosciuto inciampi. Il 6 dicembre 1984, quando entrò sul prato di Kooyong, doveva alzare lo sguardo per incontrare gli occhi della watussa Sukova, che tuttavia pativa la soggezione di una virago che in 300 giorni di gioco aveva ammassato ben 148 set, smarrendone solo sei. Come presero a scambiare, Martina impose agevolmente il proprio giocò e sprintò sul 6-1, prefigurando l’esito scontato da tutti atteso. Invece, nel secondo set, Helena riorganizzò la risposta e il servizio, prevalendo nettamente e sfruttando l’abbrivio per salire 3-0 nel terzo. Riacciuffata sul 4-4, respinse la paura di vincere, la tenacia di Martina che fu capace di annullare addirittura cinque palle-match e infine si impose per 7-5. In finale, Sukova si sarebbe però arresa all’indomita Chris Evert e ai suoi passanti millimetrici.

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Martina affrontò serenamente i cronisti: «Questa sconfitta fa male, ma ho ancora due braccia, due gambe e un cuore. Se avessi vinto, avrei dovuto confrontarmi con un traguardo storico. Ora che ho perso, devo ripartire da zero. Sono entrambe situazioni difficili da affrontare». Per una che aveva già conquistato cinque corone a Wimbledon (alla fine, sarebbero state addirittura nove!), il significato dei celebri versi di Kipling che campeggiano sul centrale londinese non era certo un mistero: «Che tu possa incontrare il trionfo e il disastro e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo».

Paolo Bruschi