Missione Unifil in Libano, il racconto del colonnello Paolo Logli alla sua sesta internazionale

(foto di Alessandro D'Autilio per gonews.it)

Continua con il colonnello Paolo Logli il viaggio di gonews.it nella componente toscana della missione Unifil a sud del Libano, al confine con Israele.

Il compito del colonnello è quello di amministrare tutti gli italiani del campo, dirigere i progetti Cimic (ovvero quelli che incidono e sono richiesti dalla popolazione) e coordinare tutta la parte finanziaria che sta dietro la missione, ad esempio stipulando contratti per i viveri e per gli spostamenti del contingente.

Paolo Logli, 52 anni, pisano, laureato in economia e commercio alla Sapienza di Roma, ha una lunga esperienza di missioni all’estero avendo partecipato alle operazioni nei Balcani nel 1998 e nel 2007, in Albania nel 1997 e nel 1999, in Afganistan nel 2009 e ora in Libano.

Qual è stata la più complicata?

Il mio lavoro all’interno di una missione è diverso dagli altri, quindi quello che può essere più semplice per alcuni settori non lo è per me, e viceversa. In Aghanistan ad esempio la situazione era più complicata a livello operativo ma più semplice a livello contrattuale. Qui in Libano è il contrario: ci sono infatti moltissimi gruppi e fazioni che vanno tenuti di conto quando si stipulano contratti, per non fare torto a nessuno. Ci sono realtà, legate ad Amal, altre ad Hezbollah ed è necessario conoscere la situazione per non fare favoritismi che poi nuociono  alla missione.

In cosa consiste quindi il suo lavoro?

La mia attività è di due tipi: considerare quello che serve alla popolazione e realizzare azioni Cimic e considerare quello che serve a noi, quindi stipulare contratti. Il nostro obiettivo è comunque sempre quello di avere un contatto positivo con la gente del posto e dare per quanto possibile lavoro.

Quali sono state le maggiori difficoltà nelle altre missioni?

In Albania ho trovato una realtà di completa anarchia. E’ stato il mio nucleo ad aprire la missione, quindi dovevamo stipulare contratti per poter mangiare, ma non esisteva niente. Siamo riusciti a creare contatti con un gruppo di pescatori, andavamo al porto tutte le mattine e loro ci facevano trovare qualcosa. Per accontentarci hanno creato una ditta da cui poi ci siamo riforniti. Stessa cosa con alcuni contadini del posto. Aprire le missioni è sicuramente complicato ma è la cosa che dà più stimoli, che crea maggiori contatti con la popolazione.

Quale missione le è rimasta più addosso?

Credo sia stata senza dubbio l’Albania, in particolare ricorderò per sempre i volti di bambini di un orfanotrofio e delle loro insegnanti che dormivano con loro per proteggerli. Quando arrivammo i bambini erano 400, dopo qualche mese di guerra erano rimasti in 70. Ho sempre ripensato a quagli occhi che ci guardavano dalla rete quando passavamo. Ci passavamo spesso proprio perché in questo modo credevamo di garantire loro un po’ più di protezione. Mi auguro che i bambini che sparirono siano stati adottati ma il dubbio che siano finiti in situazioni peggiori mi ha sempre accompagnato in tutti questi anni.

 

 

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