Due salti oltre l'ingiustizia

In occasione della finale olimpica, un ricordo di Gretel Bergmann (di nuovo) e di Alice Coachman, la prima afroamericana a vincere un oro ai Giochi


(Questo post è una versione multimediale dell'articolo uscito il 21 agosto 2016 sul quotidiano il manifesto)

Vengono dal salto in alto alcune fra le più fulgide campionesse delle Olimpiadi: dalla rumena Iolanda Balaș, bicampionessa olimpica e imbattuta per 140 gare fra gli anni ’50 e ’60, alla bulgara Sfefka Kostadinova, primatista mondiale con 2.09, stabilito ai Mondiali di Roma del 1987, passando per Rosemarie Ackermann, ultima olimpionica a saltare con lo stile ventrale, prima a valicare i due metri e fiera rivale di Sara Simeoni, che le strappò il record, succedendole sul podio olimpico a Mosca ’80, e sulle cui tracce cercheranno di muoversi le azzurre Alessia Trost e Desirée Rossit, nella finale che chiude il programma dell’atletica.

Un salto ventrale di Ackermann

Un salto ventrale di Ackermann

Dal passato dell’olimpismo moderno emergono due storie, collegate all’eterea disciplina dell’alto, che meritano di essere raccontate. La prima risale ai Giochi berlinesi del 1936, quelle della sfacciata propaganda nazista. La prospettiva di gareggiare all’ombra della svastica e la violenta persecuzione degli ebrei suscitarono una comprensibile indignazione e negli Stati Uniti si pensò al boicottaggio. Il führer allora ordinò di allentare la pressione sui figli d’Israele e richiamò in patria la giovane ebrea Gretel Bergmann, trasferitasi a Londra per fuggire il crescente antisemitismo. Nata nel Baden-Württemberg, si era laureata campionessa britannica di salto in alto e doveva rappresentare il simbolo dell’atteggiamento inclusivo dei nazisti. Fu perciò accolta nei campi di allenamento riservati agli ariani, come riportato con sollievo dalla stampa d’oltreoceano. Gli Usa decisero così di partecipare ai Giochi, proprio mentre Bergmann si confrontava con Elfriede Kaun, primatista tedesca, e con Dora Ratjen, l’altra aspirante a un posto ai Giochi. Fortemente motivata, insieme alla stessa Kaun salì al record tedesco di 1.60, ma fu esclusa dalla federazione nazionale, che la depennò dall’albo dei record. A Berlino, l’oro arrise all’ungherese Ibolya Csák e Kaun conquistò il bronzo. Scelta al posto di Bergmann, Ratjen si fermò ai piedi del podio, ma due anni dopo trionfò agli Europei di Vienna. Sul treno di ritorno fu però fermata da uno zelante controllore, che non riusciva ad associare la sua carta d’identità alla persona che sedeva davanti a lui. La fronte piatta, la mascella squadrata e le braccia pelose non lo convincevano. Consegnò Ratjen alla polizia e una banale visita rivelò che la saltatrice era in realtà un uomo.

Ratjen sul podio agli Europei di Vienna del 1938

Ratjen sul podio agli Europei di Vienna del 1938

Dodici anni dopo, il mondo era un posto ben diverso. L’Europa e l’Asia erano coperte di macerie e sangue. Gli Stati Uniti erano diventati la potenza egemone, fronteggiati dall’Unione Sovietica che aveva però sofferto immani distruzioni umane e materiali. La Gran Bretagna, uscita vittoriosa dalla carneficina bellica, era sfinita e al verde, doveva ricollocare milioni di reduci, ricostruire il paese e finanziare il nascente welfare state. Nondimeno, Londra accettò di organizzare la XIV edizione delle Olimpiadi, ricordata come gli Austerity Games.

La squadra britannica di ginnastica si allena a Hyde Park prima dei Giochi

La squadra britannica di ginnastica si allena a Hyde Park prima dei Giochi

Le medaglie d’oro furono forgiate con argento ossidato; non furono costruite nuove sedi di gara, né fu eretto un villaggio olimpico, i maschi alloggiando nelle caserme e le donne nei campus universitari. Gli inglesi restarono nelle loro case e si recarono negli stadi con i mezzi pubblici. Gli atleti beneficiarono di una deroga al razionamento alimentare, fino a 5.500 calorie giornaliere contro le ordinarie 2.600. Arrivarono 59 nazioni, non Germania e Giappone, aggressori della guerra, né l’Urss che declinò l’invito. Il neonato blocco comunista fu rappresentato da Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Jugoslavia. Fra le sole 390 donne (su 4.104 contendenti) c’era l’afroamericana Alice Coachman, vincitrice di 25 titoli nazionali in varie specialità, dalla velocità al salto in alto. Originaria di Albany, in Georgia, si era fatta largo in una società pesantemente razzista, allenandosi nelle piantagioni e per le strade impolverate del paese. Aveva superato anche l’ostilità del padre, che non esitava a frustrarla per indurla a passatempi ritenuti più consoni per una ragazza. A Londra giunse con un fastidioso mal di schiena, che la afflisse anche il giorno della finale dell’alto. Le bastò tuttavia un solo balzo e con 1.68 batté l’inglese Dorothy Tyler, già seconda a Berlino.

Coachman ascolta l'inno americano dopo l'oro nel salto in alto

Coachman ascolta l'inno americano dopo l'oro nel salto in alto

Coachman fu la prima nera a vincere un oro olimpico. Fu premiata da Re Giorgio IV, ma nel sud segregazionista alla cerimonia in suo onore bianchi e neri sedettero separatamente e il sindaco di Albany si rifiutò di stringerle la mano. La sua carriera finì con quella vittoria e a soli 25 anni lasciò le competizioni. Ormai anziana, si rammaricò che tutti indicassero in Wilma Rudolph la prima afroamericana a vincere un oro olimpico, con riferimento alla celebre “gazzella nera” dei Giochi di Roma: «Lei arrivò ben 12 anni dopo di me, ma fu vista in televisione».