Una spia sottorete

Mentre sono in corso i 136esimi Us Open, ricorre l'anniversario del primo Slam di Alice Marble, una tennista dalla vita molto avventurosa


(Questo post è una versione multimediale dell'articolo uscito il 30 agosto 2016 su il manifesto)

Novant’anni fa, anche negli Stati Uniti, le ragazze desideravano diventare come le protagoniste dei romanzi che leggevano, dei film che vedevano o delle riviste che sfogliavano. Niente di più e niente di meno di quello che una società sottilmente ma pervicacemente maschilista voleva per loro. Nello stesso periodo, tuttavia, molte cominciarono a pensare allo sport, incuranti degli abiti da sera o della carnagione di seta. Poiché non si preoccupavano di apparire graziose e rassicuranti, destavano sospetti.

Il pattinaggio sul ghiaccio era ammissibile, perché aggraziato e leggiadro; al nuoto, i perbenisti si erano abituati e avevano appena ingoiato la messa al bando delle calze di cotone e dei costumi ingombranti che fino a poco tempo prima le donne dovevano indossare anche in acqua. E poi c’era il tennis, lo sport per eccellenza delle pudiche signore della high society. Solo che, proprio allora, emersero campionesse che sfidavano gli stereotipi femminili: Helen Jacobs, Molla Mallory, Helen Wills Moody erano troppo fisicamente prestanti e determinate per riuscire accettabili al sistema dei media, che le descriveva come dei maschiacci impenitenti in odore di omosessualità.

Un'acrobatica volée di rovescio di Marble

Un'acrobatica volée di rovescio di Marble

Se una donna non poteva competere duramente come un uomo, cosa dire allora di Alice Marble? Bionda e attraente, vagamente rassomigliante a Jean Harlow, la coeva stella del cinema, la californiana fu la prima donna a praticare con successo il serve-and-volley, fino ad allora esclusiva degli uomini. Secondo il New York Post, le sportive potevano essere belle come attrici, ma non si era ancora vista una donna che facesse una figura migliore brandendo una racchetta invece di una padella. Marble non si scoraggiò: per emergere, aveva dovuto superare ben altre avversità.

Nata nel 1913 in una cittadina della Sierra Nevada, a cinque anni si trasferì con la famiglia a San Francisco. Lo sradicamento fu peggiorato dalla subitanea morte del padre, un boscaiolo, le cui magre entrate la madre fu costretta a surrogare per sfamare i cinque orfani. Alice giocava con i fratelli, imparò persino a boxare, a giocare a basket e soprattutto a baseball, e come lanciatrice svettava al punto da meritarsi l’appellativo di “piccola regina della sventola”. La lasciò, la mazza, a quindici anni, quando il fratello Dan le regalò una racchetta, imponendole uno sport più signorile. Cresciuta fino a 170 cm, vi trasferì il suo prorompente atletismo, l’addestrato colpo d’occhio e il vigore del braccio forgiato dai lanci del baseball. Benché acerba tecnicamente e tatticamente, si fece strada fra le coetanee e attirò l’attenzione di Eleanor Tennant, l’allenatrice dei divi del cinema, che l’accolse nella sua scuderia. Lavorando nella villa della sua guida, Alice si pagava gli allenamenti, ai quali incrociava spesso Charlie Chaplin, Carole Lombard o Bing Crosby. Si trasformò in un’attaccante insuperabile e impose lo stile offensivo che avrebbe in seguito improntato il gioco di Billie Jean King, Martina Navratilova e oggi di Serena Williams. L’accantonamento dei tradizionali gonnellini bianchi per più comodi shorts e l’aggressività del suo gioco scioccarono il mondo del tennis, strabiliato dalla non meno sensazionale solidità nervosa. Secondo Marble, alla sua saldezza psicologica aveva paradossalmente contribuito uno stupro subito da teen-ager: resistette al crollo nervoso e si dedicò con ancor maggior ferocia al tennis, come fonte di recupero e di autostima.

Alice Marble fra Carole Lombard e Clark Gable a Forest Hills

Alice Marble fra Carole Lombard e Clark Gable a Forest Hills

Nel 1933, al torneo di East Hampton, per convincere la federazione a includerla nella selezione nazionale, disputò singolare e doppio, finendo per accumulare ben 11 set e 108 game in sole nove ore, fino a che non fu tramortita da un colpo di calore e dall’anemia. L’anno successivo, al Roland Garros, cadde vittima di un altro collasso. I medici le diagnosticarono pleurite e tubercolosi, pronosticandole un futuro lontano dai court. Per un anno fu costretta in sanatorio, circondata da medici che cercavano di curare il suo corpo senza occuparsi della sua mente. I giorni si susseguivano senza significato uno dopo l’altro e Marble precipitò in una profonda depressione. Tennant pagò per la sua degenza, ma poi l’aiutò a lasciare l’ospedale dove stava avvizzendo come un fiore senza nutrimento. Dimagrì, la muscolatura riprese tono ed elasticità, i livelli di emoglobina risalirono e tornò all’amata racchetta. Fu la panacea: la salute migliorava non meno velocemente del livello di gioco. Contro il parere della federazione, si iscrisse ai campionati nazionali di Forest Hills, gli odierni Us Open, e giunse alla finale. Il 12 settembre 1936, affrontò Jacobs, la campionessa in carica: con sua stessa sorpresa, rimontò e al terzo set, più fresca dell’avversaria, la sommerse con il suo stile d’attacco, trasformando il match-point con un potente smash. Fu il suo primo Slam. Ne avrebbe aggiunti altri tre a New York, uno a Wimbledon e altri tredici nel doppio, fino a che la guerra raffrenò il suo slancio.

Sposò il pilota Joe Crowley e rimase vedova quando il marito fu abbattuto sopra la Germania nel 1944. Solo pochi giorni prima, aveva perso il bambino che portava in grembo per un incidente d’auto. Dopo aver tentato il suicidio, accettò un incarico dai servizi segreti. Sfruttando il vecchio legame d’amore con un banchiere svizzero, doveva avvicinarlo e impossessarsi di alcuni dati finanziari del Terzo Reich. Per questo, si beccò una pallottola nella schiena quando fu scoperta da una spia tedesca, ma fu salvata dagli agenti con cui teneva i contatti durante la missione.

Accompagnata da Alice Marble, il 22 agosto 1950, Althea Gibson è la prima nera a entrare in campo a Forest Hills

Accompagnata da Alice Marble, il 22 agosto 1950, Althea Gibson è la prima nera a entrare in campo a Forest Hills

Dopo la guerra, Marble decise di schierarsi per la desegregazione nel tennis, sostenendo il diritto della nera Althea Gibson di essere ammessa allo Slam americano. Scrisse una dura lettera di critica alla federazione, spendendo tutto il suo peso di ex numero uno del mondo, e nel 1950 Gibson fu la prima afroamericana a giocare a Forest Hills – li avrebbe poi vinti, insieme al Roland Garros e a Wimbledon.

Marble se ne andò nel 1990, infine sopraffatta dagli effetti della mai debellata anemia, e un quarto di secolo dopo non si può fare a meno di domandarsi perché una vita così avventurosa non sia ancora finita in un film hollywoodiano.

Paolo Bruschi