Giuseppe Betori, l'omelia dell'arcivescovo di Firenze a Barbiana

Giuseppe Betori

"La storia della salvezza del popolo di Dio comincia da un invito a a un uomo di sradicarsi da ogni sicurezza e di prestare fede a una promessa, la promessa di un popolo e di una terra, la promessa di diventare strumento di benedizione per i popoli del mondo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione… e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12,1.2a.3b).

Abramo si affida a questa parola di Dio, con una decisione che meraviglia, stupisce nella sua radicalità, in assenza di motivazioni umane, anzi contro tutte le possibili ragioni umane, quelle che vengono spese di norma negli affari degli uomini, in un soppesare di vantaggi e perdite, che deve dare un esito quantitativamente positivo per i primi. Qui invece, per Abramo, la perdita è secca e ben visibile: egli perde una terra conosciuta, una parentela che assicuri tutela nelle avversità, una casa che protegga e avvolga in rassicuranti legami e affetti. Tutto questo, che è certo, viene perduto da Abramo, per un atto di assoluta fede in un Dio che si proietta nel futuro della promessa e lì chiede di essere cercato, non come una sicurezza ma come una sfida, la chiamata a un di più, a un oltre le nostre misure da uomini, a un Assoluto.

La vicenda di Abramo, colta in questa pagina della Genesi nel suo primo scaturire, illumina il senso della vita di don Lorenzo Milani, che qui ricordiamo con affetto e gratitudine nel 50° della morte. Anche il giovane Lorenzo, in quell’inizio di giugno del 1943, mentre la guerra semina morte in Europa, nel colloquio con don Raffaele Bensi e in quelli che con lui seguiranno, scopre che c’è un distacco da consumare e una promessa a cui affidarsi, quella della fede e, nel concreto, quella di una vita da prete.

Il tutto, come narra lo stesso don Bensi, ha come riferimento una morte, quella di un giovane sacerdote, di fronte alla cui salma, Lorenzo Milani, in un momento che fa sintesi di una conversione ancora tutta da compiersi, pronuncia la frase che decide della sua vita, del suo sì al Signore che lo

chiama: «Io prenderò il suo posto». C’è tutto don Lorenzo in questo repentino passaggio, dalla curiosità ancora culturale con cui si era rivolto a don Bensi, perché gli chiarisse questioni di fede, a una parola che suona come la decisione che lo vincola per tutta la vita.

E questo accade con tutte le implicazioni che abbiamo visto in Abramo. Anche per Lorenzo c’è una terra da lasciare, quella dei comodi agi della borghesia a cui apparteneva, una parentela da cui sradicarsi, che poteva assicurargli un posto di riguardo nella società del tempo, una casa e una famiglia non da rinnegare ma da ripensare in legami nuovi. E anche per Lorenzo c’è una promessa, quella di un popolo che sarà suo, come egli sarà del suo popolo, unita da un legame assoluto, che si mostra nella sofferenza del distacco da San Donato, che egli soffre non tanto perché mancato riconoscimento della sua impostazione pastorale, ma come rescissione forzata dei legami che un padre ha con i propri figlioli.

Lo stesso legame con il suo popolo che si incarna poi nell’immergersi totalmente nella piccola realtà di Barbiana, con piena e definitiva consegna di sé significata dall’acquisto della tomba nel cimitero qua accanto – il luogo per cui Papa Francesco è venuto martedì scorso, con la dichiarata intenzione di compiere un gesto di onore verso don Lorenzo, quel gesto che questi aveva inutilmente cercato durante tutta la vita –; segno, l’acquisto della tomba, che don Lorenzo si consegnava per sempre a questa terra e a questa gente, come alla sua unica famiglia, al suo vero popolo. L’incontro con Cristo trasformò la vita di Lorenzo Milani e ne fece una vita spesa per i poveri, legandolo con un vincolo indissolubile alla Chiesa.

Questa fede in Cristo veniamo a imparare qui a Barbiana, per portare tutta la nostra vita sotto il giudizio del Vangelo. E qui raggiungiamo il testo di Matteo. Se Gesù ci chiede di non giudicare, è perché nessuno di noi è misura dell’altro, e l’unica misura con cui saremo misurati è quella della pienezza di Cristo, verso cui dobbiamo tutti tendere, edificandoci nell’unità del suo corpo, portando ciascuno ciò che gli è proprio a seconda dei doni e del ministero ricevuti (cfr. Ef 4,11-13). Una preziosa indicazione per il ministero dei sacerdoti che si sono voluti raccogliere con me in questo giorno: accogliere gli altri, in un atteggiamento di servizio, avendo come misura Gesù stesso. Questa prospettiva di accoglienza e servizio, fino al dono di sé, è quella di cui don Milani ci ha dato testimonianza e che ci h

lasciato come eredità impegnativa, la fiaccola di cui ci ha parlato qui Papa Francesco martedì scorso.

Il testo paolino che or ora ho rievocato continua mettendo in guardia dall’essere «trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore» (Ef 4,14). Contro gli errori degli uomini e per indirizzare alla conoscenza della verità, e quindi all’accesso alla parola di Dio, era tesa l’azione pastorale di don Lorenzo Milani attraverso la scuola, strumento di innalzamento dei poveri alla dignità propria della persona umana, all’esercizio della loro sovranità di cittadini, a una cosciente appartenenza alla comunità ecclesiale nella partecipazione alla vita sacramentale. Anche su questo stretto legame tra promozione della dignità umana e costruzione di una consapevole vita di fede, don Lorenzo Milani ha molto da dire a una pastorale che voglia far partecipi tutti della gioia del Vangelo, come vuole Papa Francesco.

Ma il testo del vangelo invita a un’ulteriore riflessione. L’odierno invito di Gesù a non giudicare sarebbe piaciuto a don Lorenzo, che nella sua vita fu oggetto di giudizi molti ingiusti, spesso perché male informati e non poche volte sfruttati a secondi fini da avversari della Chiesa fiorentina. Poco si tenne in conto che egli non chiese mai una consacrazione delle proprie analisi sociali e dei propri metodi pastorali, dei quali si preoccupava di segnalare la loro congruità alle situazioni da lui affrontate e quindi utili solo per chi vivesse in contesti simili. Una più serena accoglienza delle diversità nella Chiesa gli avrebbe risparmiato tante sofferenze e ci avrebbe risparmiato tanti rimpianti.

Ma ora la doverosa analisi di quanto è accaduto in quegli anni non deve rischiare di trasformarsi in un tribunale della storia da cui emettere facili condanne. Si tratta piuttosto di comprendere come si generarono certi sviluppi e in base a quali presupposti si giunse a tanta durezza verso un prete che chiedeva solo di amare nel modo che riteneva più consono i suoi figli. Si tratta di capire, per poter rimuovere dalle nostre menti e dai nostri cuori le cause che portarono a tanta sofferenza, da cui, come in ogni evento vissuto nella logica pasquale, scaturì e scaturisce ancora tanto bene. Significative in tal senso queste parole di Papa Francesco: «Il Signore era la luce della vita di don Lorenzo, la stessa che vorrei illuminasse il nostro ricordo di lui. L’ombra della croce si è allungata spesso sulla sua vita, ma egli si sentiva sempre partecipe del Mistero Pasquale di Cristo, e della

Chiesa» (Video messaggio del 23 aprile 2017). In questa luce si comprendono le parole con cui Papa Francesco ha interpretato la sua visita alla tomba di don Lorenzo: «Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa» (Discorso a Barbiana, 20 giugno 2017, n. 4).

Così Papa Francesco ha descritto l’anima di don Lorenzo Milani: «La sua era un’inquietudine spirituale, alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come “un ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati» (Video messaggio del 23 aprile 2017). E qui a Barbiana ha aggiunto: «Don Lorenzo ci insegna a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni. Amiamo la Chiesa… e facciamola amare, mostrandola come madre premurosa di tutti, soprattutto dei più poveri e fragili, sia nella vita sociale sia in quella personale e religiosa. La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità» (Discorso a Barbiana, 20 giugno 2017, n. 3).

Questa che il Papa riconosce come la vera anima di don Milani sia anche la nostra anima, e la nostra Chiesa riuscirà ad accogliere con doverosa comprensione i suoi figli che cercano la verità di Cristo nella storia".

Fonte: Ufficio stampa Arcidiocesi di Firenze

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