Sono tornato!

Il 19 marzo 1995, Michael "Air" Jordan smise i panni del giocatore di baseball e tornò a incantare i tifosi del basket, annunciando il rientro con un laconico comunicato stampa


airInstagram, Twitter, Facebook, insieme agli istantanei sistemi di messaggistica dei nostri smartphone, hanno pensionato modalità comunicative che solo un paio di decenni fa ci apparivano seducentemente avveniristiche. Il fax pare ormai appartenere all’archeologia industriale, eppure appena negli anni ‘90 del secolo scorso sembrava la nuova frontiera della comunicazione a distanza. Il famoso attore Daniel Day-Lewis piantò la fidanzata Isabel Adjani con un fax, in risposta a un precedente messaggio facsimile che l’attrice francese gli aveva inviato annunciandogli di essere rimasta di lui incinta. Un paio d’anni prima, il 5 marzo 1993, il ribattezzato “popolo dei fax” s’inalberò di fronte al decreto legge del guardasigilli Giovanni Conso, che avrebbe depenalizzato il finanziamento illecito ai partiti e tirato un colpo di spugna sulle inchieste del pool di “mani pulite”, e inondò di proteste il centralino del Quirinale, inducendo il presidente Oscar Luigi Scalfaro, per la prima volta nella storia repubblicana, a non firmare il testo e a rispedirlo alle Camere.

Più prosaicamente, ma certo con una risonanza planetaria assai maggiore del gelido commiato dell’attore britannico o della storica impuntatura del capo dello Stato italiano, uno stringatissimo fax trasmesso alle maggiori agenzie di stampa del globo annunciò il ritorno sul parquet del più grande giocatore di basket di tutti i tempi. Attraverso gli uffici del proprio agente, il 18 marzo 1995, il trentaduenne Michael Jordan diffuse le proprie intenzioni attraverso un comunicato di sole due parole: “I’m back”.

Il fax che annunciò il ritorno in campo di Jordan

Il fax che annunciò il ritorno in campo di Jordan

Con analogo understatement, Phil Jackson, il coach che aveva condotto His Airness ai primi tre anelli NBA, si rivolse alla stampa e confermò: «Michael Jordan è stato oggi attivato come giocatore dei Chicago Bulls». In un attimo la notizia fece il giro del mondo e i giornali di tutto il pianeta spedirono inviati nella Windy city per pubblicare resoconti sul rientro della stella più luminosa del firmamento cestistico mondiale. Anche Bill Clinton dalla Casa Bianca sentì il bisogno di unire il proprio giubilo a quello di milioni di appassionati.

Michael Jordan aveva abbandonato il gioco dopo aver toccato l’acme della sua carriera, con il terzo titolo consecutivo fra i professionisti, il terzo riconoscimento di miglior giocatore del campionato e la settima corona di capocannoniere. Nessuno come lui aveva rivoltato le gerarchie della NBA e catalizzato l’adorazione di legioni di fan di ogni razza, genere ed età. Il 6 ottobre 1993, aveva convocato i giornalisti e aveva spiegato che da quel giorno in avanti avrebbero dovuto considerarlo un giocatore di baseball: cercava così di onorare una promessa fatta al padre da poco assassinato e aspirava forse a ridurre la pressione della popolarità. Tuttavia, aveva risposto “mai dire mai” a una domanda su un eventuale ripensamento futuro. L’anno successivo, al termine di una mediocre stagione sul diamante, i giocatori di baseball scesero in sciopero per il rinnovo del contratto e continuarono la protesta per otto mesi. Frustrato e impossibilitato a mostrare i progressi per cui si era duramente allenato, Jordan tornò a Chicago: la sfida di riportare i Bulls ai vertici della NBA si dimostrò un’attrazione irresistibile e i compagni se lo rividero accanto negli allenamenti. Il che incendiò la fantasia e scatenò le speranze dei tifosi, mentre i “Tori” languivano mestamente a metà classifica.

Jordan riunì i suoi fidati manager e per ore soppesarono pro (il suo immenso talento avrebbe potuto compensare la ruggine accumulata) e contro (prestazioni sotto il suo standard avrebbero inevitabilmente dato la stura ad accuse di presunzione e arroganza). Alla fine, Air prese la sua decisione e incaricò il suo procuratore David Falk di informare i mass media. Falk gli presentò quattro versioni del comunicato, in cui illustrava le ragioni del cambiamento intervenuto nel cuore e dunque nelle priorità di Jordan. Nessuna delle bozze fu ritenuta soddisfacente e Michael volle fare da solo. Non c’era bisogno di fornire spiegazioni o giustificazioni, tutti lo conoscevano per lo stile semplice e diretto: “Sono tornato”, poteva bastare.

Il 19 marzo 1995, i Chicago Bulls affrontarono a domicilio gli Indiana Pacers. Jordan fu schierato nel quintetto base, ma dovette indossare il n. 45, lo stesso della sua breve parentesi nel baseball, poiché quando se n’era andato la franchigia dell’Illinois aveva ritirato la sua iconica maglietta n. 23. Coach Jackson lo tenne sul parquet per 43 minuti, senza molto costrutto in verità. I Pacers vinsero 103-96 e Jordan mise insieme 19 punti, con appena sette canestri su ben 28 tentativi. Il suo score personale fu però completato da sei rimbalzi e sei assist, oltre a tre recuperi, ciò che dimostrava l’inalterata capacità di influenzare il gioco a tutto campo.

Aveva comunque bisogno di riconvertire il suo fisico alla pallacanestro. Come giocatore di baseball aveva potenziato il tronco, ridotto la mobilità e accresciuto la potenza, perdendo quote della proverbiale elasticità e della miracolosa flessibilità che gli consentivano di sgusciare come un serpente fra le munite difese avversarie. Era giunto a pesare 103 chili e per tornare l’uomo in grado di farsi beffe della gravità doveva riportare il peso forma intorno a 97 chili, inoltre occorreva restituire alle gambe la celeberrima potenza esplosiva. Il suo personal trainer Tim Grover, rispetto al passato, aveva subito notato una ridotta elevazione, una minore efficacia nel jump-shot e un arco di tiro meno adeguato. Molti altri giocatori avrebbero avuto bisogno di mesi per mettersi a punto dopo una così lunga inattività, a Jordan bastarono poche settimane, come dimostrò eloquentemente in breve tempo: il 28 marzo, prese per mano i compagni e con 55 punti in 39 minuti li condusse alla vittoria per 113-111 al Madison Square Garden, la tana dei New York Knicks, i campioni in carica della Eastern Conference.

I Bulls conclusero la regular season al quinto posto e nei playoff affrontarono i Charlotte Hornets con lo svantaggio del fattore campo, che però ribaltarono immediatamente in gara-1, soprattutto grazie ai 48 punti di Michael. Finirono per prevalere 3-1 e Jordan concluse la serie con oltre 32 punti di media. Al turno successivo, li attendevano gli Orlando Magic del nuovo straripante asso Shaquille O’Neal. Nella prima partita, a 18 secondi dal termine, Chicago conduceva di uno con la palla nelle mani del suo leader, che però se la fece soffiare come un pivello qualsiasi da Nick Anderson. Sul conseguente contropiede, Horace Grant, ex titolare dei “Tori” che avevano vinto tre campionati di fila prima del ritiro di Jordan, sigillò la vittoria con una potente schiacciata. Negli spogliatoi, mentre Jordan se la svignò con indosso le cuffie per sottrarsi all’assedio dei giornalisti, Anderson rigirò il coltello nella piaga, sostenendo che il “vecchio” campione con la maglia n. 23 non si sarebbe mai fatto rubare quella palla decisiva.

In gara-2, Air lasciò il n. 45 e tornò a indossare la sua leggendaria casacca. La Lega lo multò di 5.000 dollari per il non autorizzato cambio di numero, che tuttavia valse una prestazione maiuscola con 38 punti e una netta vittoria per 104-94. Jordan pagò volentieri la multa per il resto della serie, il cui esito arrise però ai Magic, che in finale subirono un umiliante cappotto dagli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon.

Jordan e Jackson con i trofei della stagione 1998

Jordan e Jackson con i trofei della stagione 1998

I Chicago Bulls avrebbero ovviamente vinto altri tre anelli. Dopo l’ultimo, nel 1998, Jordan abbandonò di nuovo. Ma neanche il secondo ritiro fu definitivo. Ricomparve nel 2001, con i colori degli Washington Bullets, con cui giocò ancora due dignitosissime stagioni, venendo a compromesso con le logore ginocchia. Nel 2003, appese di nuovo le scarpe al chiodo e, da allora, non è più tornato.

Paolo Bruschi