Jack Johnson perse il titolo di campione del mondo 100 anni fa

Si chiuse il 5 aprile 1915, il regno del primo pugile nero a fregiarsi del titolo mondiale dei massimi, in un periodo segnato da un feroce razzismo


Johnson

Con una sconfitta annunciata e, con ogni probabilità, segretamente desiderata, il 5 aprile 1915 si chiuse il regno di Jack Johnson, il primo nero capace di indossare la corona mondiale dei pesi massimi. Sotto il sole cocente dell’Avana e sull’inverosimile distanza delle quarantacinque riprese, opposto a Jess Willard, la nuova “grande speranza bianca”, Johnson dominò l’incontro per i primi venti round, fino a che non fu più in grado, o cessò deliberatamente, di dare potenza ai suoi colpi. Dopo aver lanciato un rapido cenno d’intesa alla moglie e ai secondi, alla ventiseiesima ripresa, ricevette una veloce combinazione dall’avversario e conobbe l’onta del tappeto, su cui si lasciò andare quasi senza opporre resistenza, alzando i guantoni solo per ripararsi dai dardeggianti raggi solari. L’arbitro lo dichiarò fuori combattimento e appena ebbe terminato il conteggio, Johnson balzò in piedi e, con la scorta dell’esercito che presidiava l’arena, fu lesto a guadagnare lo spogliatoio prima che la folla invadesse il quadrato.

Johnson appena atterrato da Willard

Johnson appena atterrato da Willard

A cento anni di distanza, non è chiaro se l’incontro sia stato aggiustato. È noto che i giudici, nel 1912, avevano condannato Johnson alla galera per violazione della norma che tutelava le donne bianche dal rischio di tratta. La legge, in realtà, era così ambiguamente formulata che più che altro veniva applicata per reprimere le relazioni interrazziali. Johnson aveva semplicemente accompagnato la fidanzata Belle Schreiber, una presunta prostituta, fuori dai confini dello Stato e per questo si era beccato un anno di prigione. Scappò in Canada e poi in Europa. Secondo alcuni, a un certo punto pensò che cedere la cintura mondiale avrebbe fatto cadere le accuse nei suoi confronti e con tale stato d’animo si apprestò al match contro Willard. In effetti, quando finalmente Johnson tornò negli Stati Uniti, nel 1920, fu immediatamente assicurato alla giustizia e scontò la sua pena nel carcere di Leavenworth.

Johnson era nato a Galveston, in Texas, nel 1878, ed era stato iniziato ai segreti della boxe da Joe Choynski, un pugile bianco che aveva intravisto le sue potenzialità mentre condividevano un soggiorno dietro le sbarre per aver combattuto l’uno contro l’altro in violazione delle norme statali. Fu senza meno il campione più osteggiato e contrastato della storia del pugilato, a causa del colore della pelle.

Mentre le potenze europee si avviavano a grandi passi verso la carneficina della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti erano impegnati in tutt’altro conflitto: erano in guerra contro la propria minoranza di colore, contro i dieci milioni di afroamericani che vivevano sotto la costante minaccia delle odiose e mortali teorie dei suprematisti bianchi, riuniti in associazioni come il Ku Klux Klan, che nel 1924 arrivò a contare oltre 4 milioni e mezzo di aderenti. Nei primi anni del XX secolo, classificati da generazioni di storici bianchi come “era progressista”, ogni settimana venivano denunciati linciaggi ed efferati omicidi, senza che il governo si schierasse per tutelare uomini, donne e bambini vittime dell’odio razziale. In questo clima di feroce e brutale repressione, agli uomini di colore era ovviamente impedito di combattere contro i bianchi nello sport che i proprietari delle piantagioni di cotone avevano introdotto nel Nuovo Mondo: al pari degli imperatori romani che andavano al Colosseo a vedere i gladiatori, i latifondisti del Sud mettevano uno di fronte all’altro i loro schiavi più potenti, scommettendo su chi avrebbe vinto. Come si vede in “Mandingo”, il film interpretato da Ken Norton, che fu un valido aspirante al titolo durante il “triumvirato” di Muhammad Ali, Joe Frazier e George Foreman, gli schiavi portavano collari di ferro e lottavano spesso fino alla morte di uno dei contendenti.

Johnson sbaragliò in fretta i suoi avversari di colore e ottenne infine la chance per il titolo dal canadese Tommy Burns, che accettò di sfidarlo in un match che venne disputato a Sydney, in Australia, nel dicembre 1908. Fu una facile vittoria per il gigante di Galveston, che immediatamente sollevò i commenti razzisti di un’intera nazione, che si dette alla spasmodica ricerca del vendicatore bianco. Lo scrittore Jack London scrisse parole incendiarie sul New York Herald, esortando l’invitto ex campione Jim Jeffries a tornare dal ritiro per togliere il sorriso dalla faccia di Johnson. Jeffries si era in effetti ritirato imbattuto, ma durante la carriera aveva sempre rifiutato di combattere contro avversari neri. Quando aveva infine deciso di appendere i guantoni al chiodo, scelse i pugili che avrebbero potuto aspirare a raccogliere la sua eredità e ne arbitrò personalmente la sfida decisiva. Ora, doveva tornare per dare una lezione al neo-campione e si calò nella parte, dichiarando: «Combatterò soltanto per dimostrare che un bianco è migliore di un negro!»

Una fase del combattimento fra Johnson e Jeffries

Una fase del combattimento fra Johnson e Jeffries

L’incontro, il primo a essere mai etichettato come il “match del secolo”, fu organizzato dal celebre promoter Tex Rickard, che lo arbitrò di persona dato averlo chiesto persino ad Arthur Conan Doyle e al presidente americano William Taft, dato che i due pugili non riuscivano ad accordarsi su alcun arbitro. Si tenne a Reno, nel Nevada, il 4 luglio 1910, giorno dell’indipendenza americana e fu preceduto da un’isterica campagna di stampa che aizzò lo scontro fra le razze. Il New York Times scrisse: «Se il nero vincerà, migliaia di suoi simili potranno fraintendere la vittoria come una giustificata richiesta di qualcosa di più della mera uguaglianza fisica con i loro vicini bianchi». Ma Jeffries era ormai troppo vecchio e arrugginito per arginare la soverchiante potenza e lo stile maggiormente raffinato di Johnson, che, incurante dell’astioso vociare del pubblico, per lo più composto di giocatori d’azzardo, gangster e ubriaconi, veleggiò verso il trionfo. Jeffries fu salvato dal lancio della spugna al quindicesimo round e, benché avesse rifiutato all’inizio di stringere la mano al rivale, fu onesto nel riconoscere che non avrebbe avuto una possibilità contro Johnson neanche durante i suoi giorni migliori. L’onda di clamore che travolse il paese dopo il combattimento sfociò in pesanti disordini a sfondo razziale e almeno 20 neri furono linciati a morte.

Johnson con l'ultima moglie Irene Pineau

Johnson con l'ultima moglie Irene Pineau

Johnson fu una figura controversa, il cui contributo ante-litteram alla causa del riconoscimento dei diritti civili per le persone di colore non è stato subito evidente nemmeno agli afroamericani. Senza di lui, tuttavia, non ci sarebbe mai stato un Muhammad Ali. In un modo pre-politico, senza la sufficiente consapevolezza e in largo anticipo sui tempi, in un paese ancora profondamente e intimamente razzista, Johnson spostò in avanti le convenzioni sociali, combattendo gli avversari sul ring e i pregiudizi nella vita quotidiana: divenne smodatamente ricco, sedusse e sposò donne bianche, acquistò e guidò macchine potenti, fu introdotto agli agi e ai lussi della belle epoque europea, ma quasi fatalmente finì i suoi giorni a 68 anni per un incidente d’auto, fermato da un palo della luce mentre guidava il suo bolide con rabbia e ira, dopo che per l’ennesima volta aveva dovuto lasciare un ristorante dove si erano rifiutati di servirlo per il colore della sua pelle.

Paolo Bruschi