Monia Balsamello racconta i suoi mesi di lotta: "La morte è il più potente detonatore di vita"

Monia Balsamello

Monia Balsamello

È passato ormai del tempo da quando, il 25 novembre 2014, come una doccia fredda arrivò la notizia del malore che aveva colpito Monia Baldacci Balsamello, la 40enne scrittrice e figura chiave della casa editrice Ibiskos Risolo di Empoli. Fu un episodio che mise in ansia le tantissime persone che le vogliono bene e che, fortunatamente, nel corso dei mesi ebbe lieto fine nonostante settimane passate tra la vita e la morte prima al Cto di Careggi, poi in un lungo periodo di convalescenza.

Superata quella fase, gonews.it si propose per raccontare le sensazioni che la scrittrice aveva provato e vissuto in questo lungo cammino. Forse all'epoca non era il caso, ma a distanza di tempo è stata la diretta interessata a chiedere la divulgazione di un proprio testo che, partendo dal suo caso, ha l'obiettivo di essere una testimonianza per tutti coloro i quali rischiano di perdere la speranza, per gli studenti e in generale per tutte le persone.

Si tratta di un testo molto lungo ma al contempo scorrevole e profondo. Lo proponiamo di seguito fieri della sua divulgazione.

"Questo scritto mi è stato chiesto tempo fa da una bravissima dottoressa, Alessandra De Luca, del reparto di Neuroanestesia, Neurorianimazione e Terapia Intensiva del CTO di Careggi.
Proprio lei che, insieme a tutti i magnifici altri, dal primo all'ultimo istante, ebbe a che fare con me mentre io ero altrove. È dedicato a varie persone che non nominerò perché sanno già bene che si tratta di loro: quelli che ci sono stati e soprattutto ci sono.

Per una serie di ragioni, questa sorta di lettera al mondo non è nata prima, rimasta bloccata e inespressa dentro altre priorità concrete.
Ma so bene che il motivo profondo è stato la non completa capacità di rituffarmi in quel mare complicato e imprevedibile in cui, pur senza acqua, ho nuotato affannosamente per più di un anno. Poi arriva il momento. Basta un dettaglio, un contatto e non si torna indietro. Le parole devono poter partire. Scalpitano. Destinate a lei che me le chiese. E a chi altri vorrà prendersele.
Non è un resoconto medico. Per quello ho un pacco di cartelle cliniche.

Non è una testimonianza da sopravvissuti, rilasciata in un programma Tv generalista alle cinque del pomeriggio di domenica, in cui ti inquadrano e racconti con toni patetici alla Barbara D'Urso di turno (che ti guarda come se fossi l'ultimo lemure del Madagascar) la terribile disavventura che avrebbe potuto farti salutare il pubblico e dire "Ciao, mondo, grazie, è stato bello".
Non è la retorica degli scampati.

Non si tratta di un sunto strappalacrime per indurre compassione e pacche sulle spalle e nemmeno il diventare di colpo casi umani o esempi straordinari.
Qui nessuno si è trasformato in eroe. Non ci sono superpoteri o elisir magici.
È questo il punto. Qui si parla semplicemente di vita.

Qui c'è solo la fotografia di un fatto, anzi, di un istante specifico di tutto un percorso e delle sue conseguenze, di ciò che ha lasciato.
La riflessione mi fu chiesta per questo. Per raccontare il senso dell'assurdo e poterlo trasmettere. Non perché altri non l'abbiano fatto prima di me, ma perché, come mi disse la dottoressa, spesso non c'è proprio modo di farlo. Le persone se ne vanno senza poter dire quello che sto per dire. E sono certa che, se potessero, lo direbbero. Quasi con le mie stesse parole. Per questo ho deciso di assecondare la sua richiesta. Di mandarle questo testo. E anche di condividerlo qui. Fate conto che io sia una bottiglia che dondola sulle acque del mare. Dentro c'è questo foglio, ma non l'ho scritto solo io. Con me, sono tutte le persone che non hanno potuto dirlo. Che non hanno fatto in tempo. Fate conto di leggere chi non avete più accanto. Non è presunzione. È una sorta di megafono.
Qui c'è l'essere arrivati esattamente alla fine, quella che chiamiamo morte, ed esserci entrati dentro con tutta la chimica del corpo.
Qui c'è ciò ciò che la morte regala ai vivi, l'estrema potenza della sua lezione, l'obbligo vitale che vorrei diventasse parte del sangue che circola nelle vene di chiunque. Un balzo, la sorpresa, l'incanto, la grazia del terrore che diventa pienezza.
Prima del mio, la morte ebbe il volto di mio padre e in seguito di mia madre.

La morte degli altri, specialmente degli altri cari, scatena di colpo un vortice che cambia posizione alle cose nella tua anima, ti scompone, ti obbliga a riconsiderare tutto. Rompe equilibri, ne crea di nuovi. Ma è la morte degli altri. Può disintegrarti, ma resti vivo, in qualche modo resti vivo. Per esempio io feci i conti con la loro assenza, ma li feci male, nonostante le apparenze. E non imparai bene la lezione, non la compresi fino in fondo. Avevo colto qualcosa, un vago senso universale di ciò che è unico e fondamentale nell'esistenza, lo avevo cucito sopra a ciò che sono, creandomi un vestito che volevo nuovo, ma che non lo era. Li ho celebrati, i miei genitori, li ho tenuti per mano e anche sfidati. L'ho fatto dopo la loro partenza. E con questo bagaglio di incertezze, dolore, rabbia e amore, con questa me, arrivai a quel giorno. Quello in cui a morire (e non solo metaforicamente) fui io.

È lì che la lezione arriva davvero potente e completa. E vera. E se hai fortuna, se c'è Dio o chi ti pare, se trovi gente straordinaria che ti cura e ti sta vicino e ti sostiene e c'è chi resta lì o ti pensa forte perché non si capacita e non accetta che tu possa sparire, allora puoi trasmetterla.
Ed è questo il senso del mio scritto, la differenza tra quando a morire sono gli altri e quando invece sei tu.
È questo forse che quella dottoressa tentava di dirmi un anno fa.
Il valore prezioso di un messaggio che non era scontato poter dare. Perché io sono qui e sono così contro ogni statistica, ipotesi e previsione.
È la lezione che arriva di colpo. Non dopo lunghe, faticose e gravi malattie, in cui lentamente ti abitui tuo malgrado anche all'idea di sparire. O quando sei tu che scegli di andare.

È il messaggio che resta quando in un attimo tutto cambia, quando l'istante prima eri tu, normale e completo, nel pieno di te e del tuo mondo. E un attimo dopo non ci sei più.
Non si tratta del dopo, di quando guarisci e sei a casa e pian piano recuperi tanto, te stesso, il lavoro, tutto. Non si tratta della ripresa, del lento combattere il dolore sapendo che ce la stai facendo. Quello è conseguenza dell'attimo di cui sto parlando. L'attimo esatto che ha fatto da cesura. Lo spartiacque tra una vita e l'altra. E ci sei tu che scavalchi e salti e poi, se ti volti, vedi te stesso com'eri e se guardi avanti, vedi te stesso come sei. Somigli a chi eri, non perdi difetti e pregi, non cambi natura, non sei la magia delle fiabe che rende gli animali persone. Sei tu, ma un tu amplificato. Qualcuno che afferra di colpo qualcosa che prima non sapeva tenere ben stretto e magari nemmeno vedere.
Parlo di quando collassi e tutto si spegne.

Di come un attimo prima sai dove sei, chi hai intorno e poi scende il buio. E scivoli piano dentro qualcosa che sfugge a quello che sai. Non ci sono appigli, solo uno sparire lieve in un tutto diverso da prima. Un'ultima immagine, un ultimo scatto e poi il vuoto. Un vuoto profondo e sospeso.
E poi, se una serie infinita di variabili funziona, invece torni.

È lì che vi porto. In quegli istanti precisi attorno alle 17 di quel 25 novembre 2014.
Non prima, quando in un giorno come tanti, a un'ora qualunque, nel pieno del solito daffare, il mio alibi con la vita di colpo si viene a spezzare, mentre nuoto come al solito da anni a questa parte. Non vi porterò tra gli amici di quel giorno, in mezzo ai loro sguardi mentre vado via in barella. Non vi terrò fermi su me che guardo solo i soffitti prima della piscina, poi dell'ambulanza e poi ancora dell'ospedale e mi sento come mai prima, io che di colpo non trovo definizioni, non so spiegare quello che accade. Io dentro al dolore e all'incredulità. Io che ancora spero di uscire presto dal Pronto Soccorso, per andare a presentare un libro quella sera stessa.
Non è di questo che parlo.

E nemmeno del dopo, di quando nelle settimane successive vengo tenuta con tenacia ancora per un filo, dentro un mare di concessioni lentissime alla speranza, delle ore che in Rianimazione non diventano mai giorni. E neanche del poi ulteriore, di quando esco dall'ospedale con estrema prudenza e non posso farlo da sola, dell'occhio destro che non vede, di quello che segue per lunghe, lunghissime settimane e poi mesi.
Neppure vi porterò con me il giorno che la piscina torna ad essere casa e il lavoro riprende e anche la vita, con tutte le sue virate e implicazioni, comprese delle ricadute.
Non vi sto dicendo del prima e del poi, perché il prima e il poi sono possibili proprio finché sei vivo.

Parlo del gancio centrale, quel punto fisso, cardine e chiodo, che segna il passaggio, detta legge e impone che lo si osservi con attenzione.
Dico di quando stai morendo. Non c'è un altro modo per dirlo, nemmeno le cartelle cliniche riescono a raccontarlo in modo diverso.
È ciò che accade lì che rende il resto possibile o meno.
Parlo di quando verso la fine di quel pomeriggio il mio corpo collassa.

I polmoni cedono, il cuore impazza e non regge, tutto implode. Io non ci sono più. In quell'istante smetto di essere.
Ecco che di colpo statistiche, dettagli, spiegazioni, ipotesi, preghiere, grida, macchinari, diagnosi, sogni, impegni, affetti, desideri, paure, capacità, quello che avrei voluto fare e non ho fatto, quello che non sapevo fare e non ho imparato, ogni errore e codardia, ogni slancio di coraggio e follia, ciò che ero nella mia vita e ciò che avrei potuto essere dopo, tutto si congela. E resta fissato in quell'istante.
Lì, in quell'attimo, c'è stato un prima. Tutto il prima del mondo e tuo. Non si sa se ci sarà un poi.
Sei lì. Bloccato. Sospeso. Eri e non sei e nessuno sa se sarai.
E di fatto già non ci sei, perché il tuo corpo ti sta tradendo in maniera inesorabile.
La vita sta sfuggendo.
È lì, in quell'ora esatta di quel pomeriggio, che si annida il messaggio.
È quell'istante - che di fatto è una fine - che fa esplodere la più grande, straordinaria e potente lezione di vita.
Che la morte è il più potente detonatore di vita.
Che ogni ostacolo, pur difficile e odioso, ogni difficoltà e paura, ogni perdita, assenza, delusione o dolore, sono pur sempre qualcosa, perché implicano che tu sia vivo.
Che tutto ha senso, bellezza e orrore, solo nel momento in cui esisti.

E sperimentare ciò che accade, averci a che fare, usarlo come rampa di lancio o viverlo come zavorra e prigione, è un privilegio concesso solo ai vivi.
Ora vi sarà probabilmente più chiaro perché, per me, gli abbracci siano privilegi che ricerco e non mi lascio sfuggire, perché il contatto fisico sia prodigioso e i confronti ossigeno, perché io mi appassioni e mi arruffi di continuo ed entri ingombrante nelle cose, per sentirle e sapere di non averle perse, siano esse storie, persone, paesaggi. Perché io adori ascoltare chi ha davvero qualcosa da dire anche quando tace. E, di contro, allontanare con foga chi mi rompe le balle. Perché nuotare per me sia esattamente come volare e l’acqua come aria e andare in bicicletta contromano sul marciapiede sia il più grande degli atti sovversivi. Perché io mi indigni di fronte alla vigliaccheria, spesso senza mandarlo a dire e mi commuova di fronte ai dettagli, perché i miei innumerevoli difetti siano una grazia, avendo imparato a riconoscerli e averci a che fare. E perché io non tema le sfide, nemmeno quando si tratta di battaglie di anime e cuori. Perché io voglia stare in compagnia di persone che hanno disubbidito alla paura, senza timore di essere speciali e perché, e con la stessa intensità, io rida e pianga senza vergogna. Come mai i cieli siano per me sorprese continue, regali, e i temporali energia pura, la pioggia un’amica, il sole troppo caldo un fastidio, perché io desideri fortemente mischiare il sangue con gli altri, gli altri che scelgo di pancia e di cuore, perché io li tenga e li difenda come fossero tasselli di me. Perché io sia così piccola e relativa, manchevole, zoppicante e incompleta e lo accetti, sapendo che questo significa solo avere spazio, altro spazio da colmare con la bellezza. Perché non mi importi di come le persone scelgano o non scelgano di essere felici, sappiano o meno farlo, l’importante è che provino almeno una volta a capire quello che davvero vorrebbero, anche se resterà un sogno, ma ci provino. Perché le parole siano per me cascate che nutrono e non potrò mai a farne a meno. Perché io ascolti anche per 40 volte di fila una canzone che mi piace, senza interromperla, arrivando alla saturazione. Perché abbia imparato che dire “No” quando serve è importante quanto gridare “Sì” alla prossima avventura. Perché uno dei miei allenamenti più grandi riguardi il diventare un’anziana da sballo. Perché io sfidi così spesso il mondo per il puro, egoistico gusto di poter prendere il massimo che mi può dare. Perché non smetterò mai di studiare, cercare, annaspare, rincorrere, fermarmi di colpo, sparire, tornare, eclissarmi, sorgere, sentire il fiato che manca, spostare il limite un po’ più in là. Perché insomma io sia come sono. Lo ero prima, ma a tratti ancora mi limitavo, credendolo errore. In quell’istante di morte ho capito che invece essere me e spingermi alla totalità di quel che potrei essere, secondo il mio relativo modo di sentire, ma mio, sia probabilmente la miglior cosa che possa fare finché sarò qui. E vale per tutti. E lo penso perché la morte non me l’hanno solo raccontata, non l’ho vista solo accadere agli altri. C’ero dentro, in quegli istanti attorno alle 17 del 25 novembre 2014 e l’ho rischiata di nuovo nei giorni a seguire. Adesso vi sarà tutto certamente più chiaro.

E non sto parlando di sagome luminose, paesaggi idilliaci, musica dolce, luci in fondo al tunnel, parenti e amici che ti aspettando “di là”, non dirò di questo e di cosa si sente. Perché questi sono territori che la scienza e lo spirito si contendono da sempre e ognuno ha la sua idea ed è giusto che la conservi. Non sarò io a metterla in dubbio, raccontando questo tipo di sfumature. Che ognuno si tenga il suo dio, la sua musa di scienza, che ognuno preghi o non preghi, si affidi alla chimica e alla biologia. È sacrosanto e rispettabilissimo. Quello che dico è che, al di là di come ce la raccontiamo, chi ha sempre ragione alla fine è la vita, con la morte che la esalta per differenza.
Quello che vi dico è che, se entro venti secondi tutto potrebbe finire, che sia a causa della chimica del vostro corpo, o per mano e intenzione d’altri o vostra, allora ogni istante diventa un prodigio. Letteralmente.

Va lasciato essere, divorato, maneggiato con cura, ammirato mentre avviene.
Mai preteso, ignorato, schivato o dato per scontato.Occorre stringere alleanza col tempo, saperlo dentro, celebrarlo e scandirlo bene.
Perché il tempo è la nostra occasione di esistere.
Dove, quando, come, con chi sono dinamiche conseguenti. Senza tempo non sei e dunque altro non può esserci.
Non c'è altro modo di dare senso alla vita che sentirla mentre accade.
Appieno.
Ed esserci dentro in ogni modo possibile.
Non è tanto per dire.
Ogni istante è davvero, in sé, l'unica cosa che abbiamo.

È banale?
È semplice, ecco il fatto. Il concetto più lineare, accessibile, comune, completo e universale che esista.
E proprio per questo dimenticato, lasciato in disparte, soffocato dall'apparente importanza del resto.
Da sempre in tanti provano a dircelo: filosofi, guru, eminenze dello spirito, life coach, metteteci chi vi pare, "Carpe diem", non sprecare il tempo, presta attenzione a ciò che conta eccetera eccetera eccetera, in un lungo e costante coro di voci millenarie che disperate provano a evitare il più grande errore dell'umanità, occupata a credere che ci sia sempre e ancora tempo, che basti crederlo eterno perché lo sia.
E allora la domanda silenziosa che potreste farvi ora è: se adesso, questo adesso, fosse quell'attimo prima del niente?".

Monia Baldacci Balsamello

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