Commemorazione dei defunti, l'omelia dell'arcivescovo Betori: "Evitare la dispersione delle ceneri"

Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti
2 novembre 2017
Cattedrale di Santa Maria del Fiore
Di seguito l'omelia dell'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori.

Siamo nati per la vita: questa aspirazione, insita nella nostra natura, deve però misurarsi con la barriera umanamente insormontabile della morte, diventando quindi fonte di angoscia e smarrimento. Da solo l’uomo non è capace di abbattere o valicare questa barriera, che gli si oppone come un nemico crudele e invincibile.

La cultura oggi dominante di fronte a questo dramma cerca di nascondere la morte alla coscienza, occultandone i segni. La confina di solito nelle asettiche unità di rianimazione e terapia intensiva, tenendo lontani gli stessi familiari; e ciò potrebbe avere anche una giustificazione nella ricerca di cure maggiormente appropriate. Meno giustificabile è invece la ricerca di annullare la consistenza materiale della permanenza della morte nel tempo, come accade nella pratica, ahimè sempre più diffusa, della cremazione con dispersione delle ceneri.

Ma, nonostante tutti i tentativi di occultarla ed esorcizzarla, la morte torna con prepotenza a interrogare, soprattutto quando colpisce una vita appena sbocciata o ancora giovane, ovvero si presenta come esito della violenza che falcia individui e folle, nelle tragedie passionali e nelle stragi causate dal terrorismo e dalla guerra.

Una risposta soddisfacente non viene neppure dalla risposta nichilista che ci si vorrebbe imporre, secondo cui della morte non ci dovremmo preoccupare, perché finché ci siamo noi la morte non c’è e quando giunge la morte noi non ci siamo più. Se bastasse questo a tacitare l’interrogativo della morte, perché tanta smania di allungare la vita e, soprattutto, perché tanta sofferenza per la morte delle persone che ci sono care?

La morte continua a interrogare tutti coloro che coltivano un minimo di senso umano della vita, perché non ci basta allungare questa per annullare la morte e soprattutto perché la morte non è qualcosa che ci tocca come individui ma ci affligge nelle nostre relazioni e segna negativamente il futuro della stessa umanità. La morte ci accompagna ogni giorno e soprattutto ci attende, tutti.

Nell’antichità l’umanità ha cercato di risolvere l’enigma della morte immaginando che oltre essa ci fosse una vita umbratile, una parvenza di esistenza priva però di ogni principio propriamente vitale. Oltre la morte gli antichi pensavano a un regno di tenebre e di ombre, in cui coloro che furono vivi vagavano con quel poco che rimaneva, un’ombra appunto, della loro vita precedente. È una visione che incontriamo anche in molte pagine dell’Antico Testamento, che solo a fatica si apre alla consapevolezza che il Dio autore della vita non può lasciare le sue creature, frutto del suo amore, in preda alla morte.

La pagina del libro di Giobbe, che abbiamo ascoltato come prima lettura di questa liturgia, costituisce uno dei primi squarci di luce in questo buio. Larga parte della tradizione cristiana ha letto in queste parole già un’espressione di fede nella risurrezione. Ma una più attenta analisi del testo ebraico – ben testimoniata dall’attuale traduzione della Bibbia per la liturgia – esclude invece che qui si manifesti un’esplicita fede nella risurrezione dell’uomo oltre la morte. Tale interpretazione, infatti, contrasterebbe con l’intero libro di Giobbe, in cui il problema del male non trova soluzione nella certezza di una retribuzione oltre la morte e viene pertanto rinviato al mistero impenetrabile di Dio.

Ma, anche così, il nostro testo aiuta in modo significativo ad entrare nell’enigma della morte. Dio infatti vi appare come redentore a favore di Giobbe, un redentore che nell’ultimo atto dell’esistenza dell’uomo sofferente gli si pone vicino e, mentre questi rivendica la propria giustizia di fronte ai nemici, non gli fa mancare il sostegno di una dichiarazione d’innocenza. La spoliazione estrema dell’uomo, la sua prossimità alla morte, se vista nel suo rapporto con il Creatore, non appare dunque priva di speranza e, compiendosi nell’ottica dell’amicizia dell’uomo con Dio, questa illumina l’atto stesso della morte. L’amicizia di Dio fa sì che Giobbe, ciascuno di noi, non sia consegnato alla disperazione, ma venga sostenuto dalla certezza che nella morte l’uomo non è solo: egli attraversa la sua oscurità avendo accanto a sé il proprio redentore, Dio stesso.

Se ancora non è una chiara voce circa la vita oltre la morte, la parola di Giobbe è però rivelazione di un Dio amico, che non abbandona l’uomo nell’atto conclusivo dell’esistenza terrena. Alla morte non ci si avvicina da soli, ma nella compagnia di un Dio che è nostro alleato, sempre, anche in quest’ultima, decisiva prova della nostra vita.

La parola di Giobbe, così intesa, è profezia di quanto afferma l’apostolo Paolo nel brano tratto dalla lettera ai Romani. All’invito del profeta alla speranza l’apostolo risponde che quella speranza è ben fondata. C’è un motivo preciso per cui il cristiano non ha timore della morte: come lui e prima di lui quella soglia è stata superata per tutti dallo stesso Figlio di Dio fatto uomo. Attraversandola con la potenza del suo amore, cioè donando tutto se stesso fino alla fine per noi, empi e peccatori, Gesù ha tolto alla morte le armi e il potere, e ne ha fatto un passaggio verso la vera vita, la meta verso cui egli si è incamminato come primogenito di molti fratelli. L’ira della morte non ha più potere su di noi, perché siamo stati riconciliati con il Padre mediante il sangue di Gesù. Il passaggio della morte, per chi crede nel Cristo Risorto e conforma a lui la propria vita, non è un precipitare nel nulla e nelle tenebre, ma la soglia che introduce nella gloria e nella luce di Dio, nella compagnia del nostro Salvatore.

Sconcerta e addolora dover constatare come non poche tendenze della cultura contemporanea abbiano dimenticato questa confortante verità e siano ricadute nella visione angosciata dei pagani, di coloro che non hanno speranza. Che dire infatti di quanti non pensano ai morti come anime che vivono nella gloria di Dio o sono in un cammino di purificazione per raggiungerla, in attesa della risurrezione dei loro corpi, ma ripropongono la figura del defunto come spirito umbratile non riconciliato con la terra, nutrendo le derive perniciose dello spiritismo e dei suoi addentellati di magia e superstizione, quando non precipitano nel baratro del satanismo, oppure riducono la morte a una presenza solo apparentemente burlesca?

E non meno estranea alla nostra tradizione è un'altra prospettiva che si insinua nel pensiero contemporaneo a riguardo della morte, quella che vorrebbe che lo spirito umano con la morte torni a quel tutto da cui è stato estratto e si annulli in esso, perdendo la sua propria identità. Viene così messa in questione una delle acquisizioni più alte della nostra civiltà: il concetto di persona e la sua inalienabile dignità. Ne è un segno la diffusa pratica della dispersione delle ceneri dopo la cremazione. Di qui il richiamo della Chiesa alla tradizione dell’inumazione delle salme e, qualora si sia voluto e dovuto accedere alla cremazione, l’invito a evitare la dispersione come pure la conservazione delle ceneri nelle case private, espressioni questi due gesti, rispettivamente, il primo di una perdita del valore della persona umana, divenuta parte di una natura da cui non si distingue, il secondo di una privatizzazione estrema dei rapporti, fino alla negazione della dimensione sociale della persona.

Pensare con serietà la morte costituisce oggi un dovere imperioso per i credenti e per la loro testimonianza. È una riflessione che è strettamente legata al ribadire che in questa storia e non fuori di essa è accaduto un fatto che ha ribaltato il potere della morte sull’uomo, liberandoci dall’angoscia esistenziale e dal timore per il nostro futuro. Un uomo, il Figlio di Dio fatto uomo, ha vinto la morte, non ne è stato inghiottito; anzi con la sua croce egli ha fatto della morte un trofeo del suo trionfo. Un buon progetto per l’umanità passa attraverso un ritorno ai fondamenti della fede, colta nella sua verità storica e nella sua correlata capacità di svelare il senso profondo della vita.

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