Fase 2: le aziende fanno i test, ma 'il dopo' è un rebus. Il caso di un lavoratore del Cuoio
ERRATA CORRIGE - Da ulteriori accertamenti abbiamo appurato che l'azienda di cui si parla nel seguente articolo non opera all'interno dei codici Ateco per i quali sono concesse le agevolazioni della Regione Toscana per i test sui lavoratori. La redazione di gonews.it dunque si dissocia dal comportamento tenuto per questo caso specifico e si scusa con i lettori. Detto ciò, alcuni medici di famiglia hanno fatto presente ai nostri giornalisti che la stessa situazione di limbo di alcuni lavoratori purtroppo persiste anche in altre situazioni simili, dove però gli screening sono concessi e approvati per categorie ritenute 'a rischio'. Vi terremo aggiornati sulla faccenda.
A pochi giorni dalla riapertura delle aziende per la 'Fase 2' diventa ancora più importante stabilire misure chiare per contenere i rischi di contagio evitando di creare pericolosi 'limbi normativi' che costituiscono inutili rischi. E qualche 'falla' nella strategia di screening messa in campo a dire il vero sembra esserci.
Lo dimostra la storia che ci segnalano dal comprensorio del cuoio, dove un tampone senza data e un imprenditore giustamente premuroso portano alla luce una incongruenza. La Regione ha offerto un canale privilegiato a quelle aziende che riapriranno per sottoporre i propri dipendenti a screening seriologici (esame del sangue alla ricerca di anticorpi). L'azienda in questione, una conceria, riaprirà come tante altre il 4 maggio, e il proprietario, preoccupato di creare inutilmente focolai che metterebbero a rischio l'attività e la salute dei suoi operai, ha chiesto il test per tutti prima di rientrare.
Uno dei lavoratori, un giovane fucecchiese, è incappato però in un vero e proprio limbo normativo, e non sarebbe il solo. Dal test sierologico è risultato positivo al Covid-19. Il giovane, però, è asintomatico e l'Ufficio d'Igiene non ha ritenuto necessario il tampone in assenza di sintomi, nonostante suo padre, che abitava però su un altro piano della casa, fosse risultato positivo settimane fa.
Il datore di lavoro, ovviamente, non ha intenzione di rischiare e il giovane ha richiesto al dottore di essere messo in lista per un tampone: senza quello non potrà tornare a lavoro, ma i tempi sono incerti e probabilmente lunghi. Il ragazzo non può nel frattempo nemmeno accedere alla malattia: la norma, infatti, prevede che l'INPS paghi la malattia qualora ci sia un tampone Covid-19 positivo. In assenza di quello, quindi, il ragazzo o non rientra a lavoro (senza paga), oppure dovrebbe mettersi in ferie di tasca sua o in malattia inventando una qualche patologia.
L'incongruenza è quindi doppia: da una parte non c'è un protocollo chiaro tra il test positivo e il tampone, cioé non ci sono disposizioni che creano linee privilegiate per il successivo tampone o obbligano alla quarantena, infine in mancanza di ciò non è possibile attivare la malattia per Covid-19 a carico dello Stato. È ovvio che dopo un mese di inattività, con paga ridotta o profitti azzerati e in alcuni casi inesistenti, queste incongruenze forniscono la tentazione all'operaio (e al datore) di ritornare a lavoro prendendosi il rischio. L'operaio, magari in difficoltà economica dopo l'emergenza, si trova a dover decidere tre la responsabilità e il suo stipendio.
Questa volta entrambi i lati hanno scelto la via della responsabilità, ma non è detto che accada sempre così: strumenti più agili per effettuare i tamponi,un protocollo che dal test sierologico porti immediatamente al tampone e alla quarantena, nonché una normativa che riconosca la malattia da Covid-19 anche dopo il test positivi, potrebbero evitare inutili rischi.
Giovanni Mennillo