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Nello studio di Giuseppe Lambertucci, focus sulla mostra in Consiglio regionale

Questi bellissimi cavalli - simbolo stesso dell’uomo, che fin dalle epoche preistoriche ha imparato a cavalcarli, a farne i compagni della propria vita – sono spesso il soggetto dei suoi quadri, corrono selvaggi lungo acque inquinate, nature devastate, ma simbolo - proprio loro - per il ribaltamento di un mondo sempre più degradato.

Giuseppe Lambertucci ha appena avuto un riconoscimento importante, si è infatti chiusa il 5 di novembre una sua personale presso il Palazzo del Pegaso di Firenze, sede del Consiglio Regionale Toscano, con catalogo edito dallo stesso organismo a cura di Nicola Micieli, e le importanti presentazioni di Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio e di Marco Landi, portavoce delle Opposizione, ambedue compiaciuti per aver ospitato una mostra così prestigiosa, dove Lambertucci diventa interprete del paesaggio toscano, ma fa anche “i conti – ha detto Mazzeo - con un presente incerto, con un allarme ecologico che chiede a tutti… responsabilità nelle scelte, comportamenti virtuosi e in più, a noi, rappresentanti delle Istituzioni, la messa in campo di politiche adeguate a garantire un futuro ai nostri figli”.

C’è un grande quadro di Lambertucci, intitolato “I guardiani dell’Arno” (1985, cm. 200 per 1.40), di proprietà dello studio del rag. Piero Falaschi, un commercialista di San Miniato Basso. Suo figlio, Alberto, da dopo che Piero è scomparso, lo tiene in bella vista dietro alla scrivania, accanto ad altre importanti opere acquisite dal padre.

Mi capita spesso di ammirare quest’opera, potrei dire di averla studiata anche più di altre, ne posso parlare con una certa competenza. Si tratta di un paesaggio per me consueto, con l’Arno in primo piano, invaso da splendidi cavalieri che attraversano il grande dipinto, con le criniere dei loro cavalli, che ne invadono il corpo, ed effetti di notevole suggestione. Sullo sfondo c’è una ciminiera fumante e la Rocca di San Miniato, siamo nella parte bassa del paese, credo che la ciminiera sia quella della Saiat, un’industria per la conservazione di pomodori, ormai dismessa, anche se ancora presente, almeno nella sua struttura, nei pressi della Stazione dei treni.

Lambertucci può, a tutti gli effetti, essere considerato un maestro della pittura, certo almeno tra i pittori a noi più vicini, e questo 2022, rappresenta per lui un momento particolarmente importante: è infatti appena uscita da Bandecchi & Vivaldi la biografia artistica di cinquant’anni di pittura e grafica, a cura di Nicola Micieli, lo stesso critico che ha scritto il saggio introduttivo per la mostra che si è chiusa di recente al Palazzo del Pegaso di Firenze, la sede del Consiglio Regionale Toscano, certo un riconoscimento per l’arte di un uomo che ha sempre lavorato facendo tesoro della modestia dei grandi, di quegli artisti che non hanno bisogno di gridare per essere ascoltati. Hanno salutato la mostra - oltre ai già citati - Giulia Deidda, sindaco

di Santa Croce, Alessio Spinelli, sindaco di Fucecchio e Cristina Acidini, importante storica dell’arte, già direttrice degli Uffizi e presidente dell’Accademia delle Arti e del Disegno.

La vicenda umana di Lambertucci ha le sue particolarità, è nato ai piedi del Monte Serra, tra Pisa e Lucca, ma la sua vita si è tutta consumata nel comprensorio del cuoio, prima a Ponte a Cappiano, poi a Santa Croce sull’Arno, anche in un impegno - la conceria - legato a quel territorio. Questo anche se il lavoro di pittore e grafico lo ha preso da sempre, fino a fargli fare il gran salto, lasciare un impiego sicuro, per scegliere un’occupazione del cuore, certo meno della mente, o della parte dei pantaloni che contiene il portafogli.

É stata una scelta vincente, questo lo si legge proprio nelle sue opere, dalle prime, di oltre quarant’anni fa, alle più recenti. C’è una maestria nell’esecuzione, ma c’è soprattutto l’esposizione di una ricchissima interiorità, che esplode nella forza vitale di queste figure, in particolare quelle che si sono potute vedere a Firenze. Quei cavalli, montati a pelo, da corpi nudi, di dei, ma anche di uomini dalle lunghe capigliature, che corrono liberi, sulle visioni delle nostre campagne più brulle, meno coltivate, o sulle zone umide del padule di Fucecchio. Queste figure rappresentano la forza della libertà: c’è una condanna del degrado, ma soprattutto c’è l’esatto contrario, la voglia di vivere e di correre. Noi vi leggiamo una grande positività, un ottimismo che avanza, nonostante tutto.

Si pensi a opere intitolate “L’assedio” o “Lo spirito del mare insidiato”, nelle quali l’iconografia rappresenta tutta la sporcizia che ci circonda e che inquina, toglie il respiro, soprattutto al grande mare, al liquido amniotico che continua a nutrirci, a darci aria, acqua. Ma, come scrive Nicola Micieli nel suo saggio introduttivo alla mostra, che si intitola proprio “Lo spirito del mare”, è lui “che annuncia la speranza nell’arca salvifica governata da Ariele, l’arcangelo del bene, che… indica la via a chi è risucchiato nel vortice”.

Le opere di Lambertucci prendono vita a partire dalle immagini di una natura soprattutto acquatica, l’uomo diventa un elemento, anche nel cielo, sulla terra, dentro l’acqua, in una natura incontaminata, oppure attraversata da intrusioni orribili, immagini di distruzione e di devastazione, che inquinano luoghi prima di allora stupendi, dipinti con i colori tenui del verde e dell’azzurro, anche ad acquarello, tecnica che ben si sposa con queste tematiche; ma anche con altri colori che insistono evidenti, davanti allo sguardo e alla fantasia di chi li guarda.

"Tra gli aspetti critici del nostro tempo – scrive ancora Micieli – Lambertucci ha posto particolare attenzione al tema ecologico, che dalla sfera strettamente ambientale… si estende a un’idea del disequilibrio, e anche della vera e propria devastazione, di più ampio coinvolgimento e di più stringente ricaduta umana e civile, che già trattava negli anni Ottanta".

C’è un’altra opera significativa, tra i bellissimi quadri esposti in Regione Toscana, si intitola “Dall’utopia alla speranza” (2004, cm. 1.50 per 2.10). Il tema è sempre lo stesso, la distruzione della natura e dell’uomo, ma anche – appunto – una speranza di riscatto. In primo piano un personaggio, forse un cavaliere, o forse meglio solo un’armatura, un guscio vuoto finito a terra, al centro di un campo di grano. È la guerra,

la morte che ci invadono, sullo sfondo però, c’è un angelo e un cavallo che si stagliano contro cielo. L’angelo è tutto giocato su toni rosacei, attaccato alla criniera di uno splendido cavallo grigio, che corre tra le nuvole: l’utopia appunto, la speranza, il bisogno dell’uomo di mettere un punto alla potenza distruttiva degli altri uomini e delle nazioni. Qualcosa di vitale per il nostro domani, per il domani anche di Giuseppe Lambertucci, un artista da sempre è rimasto legato ai segni del bene e del bello

Fonte: La Conchiglia di Santiago

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