Come Michael Jordan divenne un campione ancora più grande

Paolo Bruschi con la statua di Michael Jordan

Paolo Bruschi con la statua di Michael Jordan

C’è Michael Jordan e poi ci siamo tutti noi

Earvin Magic Johnson

Figuratevi, che so, Zlatan Ibrahimovic all’apice del successo. È l’estate 2009, strapagato dall’Inter, ha appena conquistato il terzo scudetto consecutivo, con l’aggiunta della corona di capo-cannoniere del torneo. Chiama i giornalisti e dichiara: «Ho perso ogni motivazione. Nel calcio non ho più nulla da dimostrare: è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere, diventerò un giocatore di pallacanestro».

Pazzesco, impossibile. Invece, è successo. Non è stato Ibrahimovic a dire basta, ma addirittura l’atleta più conosciuto e idolatrato della sua generazione, un’autentica icona planetaria, più del bizzoso attaccante svedese. Fu Michael “Air” Jordan, secondo molti il più grande giocatore di basket di tutti i tempi, a lasciare dopo aver appena conquistato il terzo titolo NBA consecutivo con i Chicago Bulls e il settimo (!) titolo di miglior realizzatore. Ad appena due anni dal ritiro di Magic Johnson, costretto dal virus HIV a portare il suo sorriso fuori dai campi di gioco, milioni di appassionati vedevano uscire di scena il suo più legittimo erede.

Con sorpresa non inferiore alla speranza di continuare a venerarne il talento, i tifosi appresero che Jordan sarebbe diventato un giocatore di baseball e giusto il 7 febbraio di venti anni fa, i Chicago White Sox lo misero sotto contratto per un stagione nella Major League Baseball (MLB).

Michael Jordan

Michael Jordan

Per l’opinione pubblica americana e per certe ragioni storiche, la decisione di dedicarsi a un altro sport non fu scioccante come per quella europea. Negli Stati Uniti lo sport è massicciamente praticato nelle scuole, fin dalla più tenera età: maschi e femmine gareggiano spesso in competizioni promiscue finché il diverso sviluppo fisico non lo impedisce e i giovani passano disinvoltamente da una disciplina all’altra, incoraggiati a esprimere la propria esuberanza fisica e a esplorare le proprie variegate potenzialità atletiche. Nemmeno il sistema universitario, benché sia la fucina che alimenta lo sport professionistico e quindi esasperi la preparazione dei giovani più promettenti, non ne soffoca del tutto la versatilità.

La storia dello sport a stelle e strisce è piena di atleti incerti sulla disciplina da intraprendere all’atto di passare professionisti. Jackie Robinson, il primo nero del campionato di baseball, eccelleva anche nel football e nel salto in lungo e durante gli anni del college era stato selezionato per disputare il tradizionale All Star Game sia per il basket che per il football. Babe Didrikson fu la prima campionessa di golf di livello internazionale, ma prima si era affermata come fuoriclasse della pallacanestro (tanto da competere contro gli uomini!) e aveva vinto l’oro negli 80 ostacoli e nel lancio del giavellotto alle Olimpiadi del 1932. Pat Riley, che i più ricordano come il coach degli spettacolari Los Angeles Lakers degli anni ’80, fu una guardia degli stessi Lakers campioni nel 1972, ma prima aveva ricevuto un’offerta dai Dallas Cowboys per giocare nella National Football League.

In Europa, un tale eclettismo è sconosciuto. Al livello dei colleghi americani può collocarsi solo Cesare Rubini, che fu campione olimpico di pallanuoto nel 1948 e vincitore di ben 6 scudetti del basket con l’Olimpia Milano, guadagnandosi infine la nomina nella Hall of Fame di entrambi gli sport.

C’era però un motivo molto serio e intimo che spiegava la scelta di Jordan: la morte violenta del padre James, fonte costante di ispirazione nella sua ascesa di campione. James Jordan fu ucciso con un unico colpo di pistola, che lo raggiunse dritto al cuore. L’omicidio avvenne presumibilmente il 23 luglio 1993, ma il cadavere fu rinvenuto solo il 3 agosto in un’area paludosa della North Carolina e poi identificato con certezza il 13. La circostanza che la famiglia non avesse denunciato la prolungata e inspiegata assenza del congiunto, unita alla passione di questo e del figlio per le scommesse, indusse alcuni giornali a rubricare l’omicidio come un’esecuzione mafiosa, la classica vendetta per i debiti di gioco non onorati e un lugubre avvertimento recapitato all’eroe delle folle. Quale che fosse la verità dietro la morte del padre, una rapina finita male da parte di due adolescenti sbandati, come recita la versione ufficiale, o la mano armata di “Cosa nostra”, per Michael fu uno choc assoluto e gli parve di poterlo superare solo esaudendo un desiderio che il padre gli aveva sempre confidato: vederlo giocare a baseball.

E questo fece Jordan, si mise in testa di diventare un vero giocatore di baseball. Gli White Sox gli fecero generosamente posto, lo abbigliarono con la maglia n. 45 e lo attesero pazientemente, minimizzando la sua goffaggine iniziale ed enfatizzando i pochi progressi che manifestava durante le estenuanti sedute di allenamento cui si sottoponeva con l’umiltà del novellino. Era sincero e determinato, non gli importava di essere sceso dalla vetta del cielo alla polvere del diamante di allenamento, sotto lo sguardo al contempo comprensivo e scettico dei compagni: lo guardavano mulinare la mazza nel vuoto, mentre cercava vanamente di impattare il lancio dell’avversario; sapevano che nessuno può colpire una palla da baseball in sole poche settimane di allenamento, ma stavano al gioco e dissimulavano la diffidenza; godevano dell’attenzione spasmodica della stampa e rispettavano l’etica del lavoro di Jordan, che tuttavia non fu sufficiente per guadagnargli un posto in squadra all’avvio della stagione regolare.

Fermo nel suo proposito, Jordan accettò di scendere di categoria e firmò con gli oscuri Birmingham Barons, che furono investiti da un’ondata di popolarità che non avevano mai conosciuto e mai avrebbero sperimentato in seguito: il pubblico assiepava gli spalti e i biglietti andavano a ruba, così come la maglietta n. 45, le cui vendite stabilirono un record mai più superato. Jordan era arrivato nella torrida città del sud con il suo jet privato, ma poi si sottopose come i compagni alle lunghe trasferte in bus, alla sfiancante routine di allenamenti e partite su terreni incerti e male illuminati, sui quali gli infortuni erano sempre in agguato, scoprendo e apprezzando la genuina passione per il gioco che animava quel mondo lontano anni-luce dai lustrini e dalla gloria della NBA: «Mostrano un approccio al gioco che io ammiro e che avevo smarrito. Sono stato così a lungo sul piedistallo che avevo dimenticato gli sforzi che bisogna fare per arrivarci», confessò rispettosamente.

Durante l’estate le sue statistiche migliorarono appena un poco, pur restando misere e anonime. I giornalisti che lo avevano attaccato e che si sobbarcarono trasferte su campi improbabili, dovettero accorgersi che la testardaggine e la tenacia stavano trasformando Jordan in un legittimo giocatore di baseball, non un fuoriclasse ma neanche una ridicola caricatura di atleta. Nel mezzo di questa lenta e cocciuta metamorfosi cadde il più aspro sciopero del baseball dal 1904. Oltre 900 partite furono cancellate e il titolo del 1994 non venne assegnato.

A 32 anni compiuti, Jordan riconsiderò la sua decisione e il 18 marzo 1995 rilasciò una laconica dichiarazione alla stampa, che uscì a caratteri cubitali su tutti i giornali: «Sono tornato!». I Chicago Bulls avevano intanto ritirato la sua maglia n. 23 ed eretto una statua commemorativa di fronte allo United Center, la loro nuova casa. Jordan vestì il n. 45 e, alla quarta partita dopo il volontario esilio, infilò 55 punti contro i New York Knicks, servendo l’ultimo pallone al compagno Bill Wennington per il canestro del decisivo 113-111. La stagione successiva, con la loro stella in piena luce, i Bulls registrarono 72 vittorie e 10 sconfitte, il miglior record di ogni epoca, e ovviamente vinsero il campionato, il primo di un'altra tripletta che fu completata nel 1998.

Che fosse il capriccio di un ego smisurato, la postuma adesione a un sogno infantile condiviso con l’adorato padre o l’espiazione per la colpa morale di fronte all’America per il cedimento al demone del gioco d’azzardo, il bagno di umiltà cui Michael Jordan si sottopose in quel doloroso 1994 lo rese se possibile un cestista ancora migliore. Non dal punto di vista tecnico o tattico, ma dal punto di vista umano. Ha ricordato anni dopo Phil Jackson, il “coach Zen” che guidò dalla panchina gli imbattibili Bulls: «Capì che la sua classe era un dono e che il gruppo ne era il vero beneficiario. Il segreto di ogni squadra vincente consiste nel portare alla luce il talento di tutti i giocatori e nella seconda parte della sua carriera Jordan fu più generoso e altruista, più disposto ad aiutare i compagni a diventare migliori: fu questa consapevolezza a farne il più grande di ogni epoca».

Paolo Bruschi