L'omelia del Cardinale Betori per i cattolici impegnati in politica e sociale: "Non si fa giustizia opponendo compassione e verità"

Giuseppe Betori

Di seguito il testo dell’omelia che è stata proclamata oggi pomeriggio, lunedì 14 aprile, alle 18.30 in Arcivescovado a Firenze dal cardinale Giuseppe Betori nella Santa Messa per i cattolici impegnati in ambito sociale e politico e nell'amministrazione pubblica.

"Inizia la Settimana Santa e Gesù viene presentato sulla scena in cui si consumerà il dramma della sua crocifissione. 

La liturgia lo fa anzitutto con le parole del libro di Isaia, di cui ci ha fatto ascoltare il primo dei canti del Servo del Signore, una misteriosa figura, che presenta insieme caratteri profetici e regali, in cui Gesù stesso e poi la fede dei discepoli hanno riconosciuto una sua prefigurazione. Gesù che entra nella settimana della sua passione ha il volto del Servo, che il testo proclamato ci ha presentato come ricolmo di Spirito, inviato a proclamare diritto e giustizia, come luce delle nazioni e alleanza per il popolo. Dio stesso lo ha presentato così: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. […] Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra […]. Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni» (Is 42,1.4.6). È questa la missione di Gesù, quella che egli sta portando a compimento nella sua Pasqua, attraverso il sacrificio che l’ultimo dei canti del Servo illustrerà con dovizia di particolari come lo strumento della salvezza dell’umanità.

Lo sguardo posto sul volto di Gesù ci aiuta a illuminare però anche il nostro volto, perché, in forza del nostro Battesimo, noi tutti siamo diventati partecipi dello stesso Spirito e della stessa missione, da attuare ciascuno nelle concrete situazioni della propria vita. Anche per noi vale, dunque, la chiamata a portare il diritto e la giustizia nel mondo. Un’esortazione che va compresa alla luce del significato che il linguaggio biblico conferisce a queste parole, con cui indica la volontà, il disegno di Dio sull’umanità e sulla creazione. Siamo chiamati, sulla via tracciata da Cristo, a portare nel mondo la luce delle verità intorno al disegno che il Creatore ha inscritto nel profondo della sua creazione.

Si tratta di un compito particolarmente impellente oggi, di fronte a preoccupanti segnali di oscuramento della verità sulla persona umana e sui suoi legami sociali. Voglio richiamarne alcuni aspetti, per la nostra comune riflessione.

Dopo aver eclissato il ruolo educativo dei genitori, e dopo aver oscurato, fino alla scomparsa, la figura del padre e quindi, correlativamente, della madre, siamo ora testimoni di come se ne vogliano attentare fin le basi biologiche, con una scissione tra dimensione corporale e psicologica della persona che mina alla base l’identità stessa dell’umano. Cosa ne sarà di figli a cui sarà negato conoscere i propri genitori ovvero se ne offriranno loro due contraddittorie e contrastanti figure? C’è qualcuno che vorrà spiegarci come dalla riduzione materialistica della comprensione del mondo ora si sia passati al suo opposto, alla negazione della concretezza dei fatti in nome di un’autodeterminazione senza limiti, che vorrebbe far coincidere la propria volontà di potenza con la realtà fattuale.

Dopo aver emarginato coppia e famiglia nell’ambito delle relazioni sociali, a vantaggio di un individualismo che per affermarsi ha bisogno di negare i legami, ora si vorrebbe considerare superata la natura di quello che è il legame principale della convivenza sociale, la famiglia, senza cui una società è priva di futuro e muore, un legame che necessariamente invoca la complementarietà sessuale. Non c’è modo di rispettare la dignità di ciascuno e di riconoscere elementari diritti nelle relazioni senza confondere il riconoscimento delle differenze con il trionfo delle equivalenze?

Non c’è chi non veda come la missione di servire la verità e la giustizia comporti di ristabilire un diritto radicato nella dimensione fattuale, biologica e materiale delle cose, della realtà corporale della persona, dei legami personali. Va ricacciata una cultura del desiderio, che pretende di farsi diritto, una cultura che emargina chi i desideri non può permetterseli o addirittura si trova ridotto a strumento dei desideri altrui, come nel caso dei fornitori (non parliamo di donatori, per favore!) di gameti e delle donne usate per le gestazioni sostitutive.

Si noti come tutti questi nuovi diritti si collochino sul versante dell’individuo, mentre restano emarginati i diritti sociali, quelli che dovrebbero renderci responsabili verso i poveri. Perché le due cose non sono tra loro sconnesse e non è senza significato che questa società dell’affermazione di sé sia anche la società dello scarto, come ripete spesso Papa Francesco. Ricordiamo un significativo passaggio della sua esortazione apostolica: «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide… Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 53). E proprio qualche giorno fa, ricevendo il Movimento per la Vita italiano, il Papa ha aggiunto a tali parole questo commento: «E così viene scartata anche la vita. Uno dei rischi più gravi ai quali è esposta questa nostra epoca, è il divorzio tra economia e morale, tra le possibilità offerte da un mercato provvisto di ogni novità tecnologica e le norme etiche elementari della natura umana, sempre più trascurata. Occorre pertanto ribadire la più ferma opposizione ad ogni diretto attentato alla vita, specialmente innocente e indifesa, e il nascituro nel seno materno è l’innocente per antonomasia» (Discorso al Movimento per la Vita italiano, 11 aprile 2014). E nello stesso giorno ha avuto modo anche di richiamare alla fondamentale realtà della coppia e del suo rapporto con la generazione dei figli: «In positivo, occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Continuando a maturare nella relazione, nel confronto con ciò che è la mascolinità e la femminilità di un padre e di una madre, e così preparando la maturità affettiva» (Discorso alla Delegazione dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia, 11 aprile 2014).

Accade che di fronte a questi richiami venga opposto l’invito a farsi carico della sofferenza e del bisogno delle persone, siano esse coppie sterili o legami affettivi in cerca di riconoscimento e sostegni. Pensare che tale attenzione possa ribaltare la natura delle cose significa di fatto assumere lo stesso sguardo che abbiamo visto negli occhi di Giuda nella pagina del vangelo di Giovanni di fronte al gesto di Maria di Betania che cosparge di profumo i piedi di Gesù. Le ragioni di Giuda sembrerebbero inoppugnabili: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?» (Gv 12,5). Ma i poveri non possono essere un’alternativa all’amore verso Gesù. E Gesù lo svela con una risposta mite ma densa di rivelazione: ««Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me» (Gv 12,7-8). Proprio l’amore verso Gesù ci rende capaci di accogliere nel modo giusto i poveri, e tutti i poveri, quelli di oggi e quelli di domani. La logica compassionevole, e che si presume razionale, di Giuda avrebbe avuto come esito quello di sfamare una sola famiglia povera della Palestina per soli 300 giorni, poi sarebbe tornata la fame. La fede in Gesù conduce a una soluzione più ragionevole ed efficace del problema della povertà, perché implica per chi lo segue di farsi carico della vita di tutti i poveri della terra per tutti i loro giorni, riconoscendo in loro il volto del Signore.

Non si fa giustizia opponendo compassione e verità, i poveri e Gesù e la sua parola. Un umanesimo davvero radicato nel Vangelo nasce da uno sguardo armonico, che unisce realtà e verità, esigenze storiche e fede.

Questo vale per la nostra vita personale ma anche per la nostra presenza nella società, anche nella forma dell’azione politica, in cui è essenziale rifiutare di essere schiavi del “pensiero unico”. Queste le parole con cui Papa Francesco commentava giovedì scorso, alla Messa in Santa Marta, il testo del vangelo di Giovanni in cui i Giudei si rifiutano di credere in Gesù e cercano di lapidarlo: «Anche oggi c’è la dittatura del pensiero unico e questa dittatura è la stessa di questa gente: prende le pietre per lapidare la libertà dei popoli, la libertà della gente, la libertà delle coscienze, il rapporto della gente con Dio» (Omelia alla Messa a Santa Marta, 10 aprile 2014).

Ma lo stesso Papa Francesco ci ricorda spesso che la nostra adesione al pensiero di Gesù può scaturire solo da un incontro personale con lui. Come credenti sappiamo che la sorgente della nostra coerenza con gli orizzonti che il Vangelo apre alla comprensione dell’umano e alla sua attuazione storica sta nell’adesione a Cristo, nella comunione con lui, con la sua parola e la sua grazia. A lui ci consegniamo nella prospettiva della sua Pasqua".

Cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze

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