L'ex assessore Massimo Matteoli: "Ecco la mia in merito all'articolo 18"

Massimo Matteoli (foto gonews.it)

"Sull’art. 18 diamo i numeri. Sarà vero che l’art. 18 è solo un simbolo, una questione ormai secondaria che riguarda una minoranza di lavoratori ed il residuo di una stagione ormai passata, come la televisione in bianco e nero degli anni 70?

E’, in effetti, molto diffusa tra i nostri “opinionisti” l’idea che la questione dei licenziamenti sia solo un’icona ideologica o che l’art. 18 costituisca, al massimo,  solo un “privilegio” (?) di una minoranza di lavoratori che deve essere scardinato una volta per tutte per garantire migliori e più proficue occasioni di lavoro.

La cosa che sorprende di più è che queste apparenti sicurezze non sono mai accompagnate dalla consapevolezza, al di la dei “miti”, della reale struttura della società italiana.

I veri numeri dell’art. 18

L’idea che l’art. 18 tuteli solo una sparuta minoranza di lavoratori è, infatti, solo una”leggenda metropolitana”.

Troppe volte i commentatori hanno confuso il “nanismo” delle imprese italiane con la realtà del lavoro dipendente, attribuendo allo Statuto dei Lavoratori la colpa della mancata crescita delle aziende del nostro paese e del peso dei rapporti di lavoro precari.

Se ciò fosse vero, dovrebbe esistere una netta differenza di comportamento degli imprenditori in prossimità della soglia fatidica dei 15 dipendenti con un addensarsi di aziende sotto questo numero ed una diffusione dei contratti precari più numerosa in Italia che nelle altre nazioni europee.

I dati disponibili ci rappresentano, invece, una diversa realtà.

Il primo dato che balza agli occhi, infatti, è che l’art. 18 non  è niente affatto un “privilegio” (??) di pochi, ma riguarda la maggioranza dei lavoratori dipendenti da aziende private.

Secondo una stima della CGIA di Mestre (come al solito una delle associazioni più attente a valutare la realtà effettiva delle cose) il numero delle imprese con più di 15 dipendenti rappresenta una sparuta minoranza (solo il 2,4 %), ma occupa la grande maggioranza dei dipendenti,  più di 7.300.000 lavoratori su un totale di circa 11.300.000 persone.

Non solo, di queste oltre sei milioni e mezzo (cioè il 57,6% del totale degli occupati del  settore privato) rientrano nella previsione dell’art. 18.

STIMA DEI LAVORATORI DIPENDENTI OCCUPATI IN ITALIA  (anno 2011)

Dimensione Imprese

Dipendenti a tempo determinato

Dipendenti a tempo indeterminato

Totale dipendenti

Inc. % lavoratori a tempo determinato

Inc. %  lavoratori soggetti art. 18 sul totale dipendenti

fino a 15 dipendenti

470.011

3.529.312

3.999.323

11,75%

 

più di 15 dipendenti

797.869

6.506.926

7.304.795

10,92%

 

TOTALE

1.267.880

10.036.238

11.304.118

 

57,6%

 

Elaborazione Ufficio studi CGIA su dati Censimento Industria e Servizi ISTAT

Si parla, quindi, di circa sei milioni e mezzo di persone che in questi giorni vedono messa in discussione uno delle poche sicurezze che possono  vantare in un tempo di crisi economica imperante e cioè che il loro posto di lavoro ed il loro stipendio sono in qualche modo tutelati dall’arbitrio  ingiustificato di dirigenti e datori di lavoro.

A questi numeri, che già da soli rappresentano l’ ampia maggioranza  dei dipendenti privati vanno aggiunti, almeno come aspettativa tendenziale, i circa 8oo.ooo dipendenti a tempo determinato delle aziende più grandi, la cui aspirazione è ovviamente quella di essere assunti anch’essi a tempo indeterminato.

L’art. 18 danneggia l’occupazione ?

Né più fondate appaiono le considerazioni sui presunti effetti distorsivi dell’art. 18 a danno dell’occupazione, pur così comuni tra molti commentatori.

Infatti, tale opinione non trova nessun reale riscontro nei comportamenti concreti degli imprenditori italiani, a cominciare dall’ utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato, visto che le aziende sotto i 15 dipendenti in percentuale sui loro dipendenti   (11,75% contro il 10,92 %  delle imprese maggiori) se servono addirittura di più !

Né, anche per quanto riguarda la dimensione delle aziende, la soglia dei 15 dipendenti sembra produrre effetti particolari.

Sempre la CGIA di Mestre, che di piccole imprese dovrebbe intendersi, fornisce i seguenti dati:

Imprese nell’industria e nei servizi per classi di addetti  Anno 2011

Dimensione impreseNumero impreseIncidenza %
0 addetti205.2294,6
1 addetto2.477.50056,0
2-5 addetti1.316.02529,7
6-9 addetti215.8764,9
10-15 addetti105.8892,4
16-19 addetti28.6300,6
20-49 addetti52.4951,2
50-99 addetti13.6440,3
100-249 addetti7.1940,2
250-499 addetti2.0030,0
500 e più addetti1.4650,0

Elaborazione Ufficio studi CGIA su dati Censimento Industria e Servizi ISTAT

Come si vede l’enorme maggioranza delle aziende italiane è concentrata nelle classi più piccole.

Il vero “salto” avviene nel passaggio a 5 ed a 10 addetti, numeri che evidentemente segnano la trasformazione dell’impresa da una dimensione poco più che personale ad una organizzazione aziendale più complessa.

La ricerca conferma i dati di uno studio di qualche anno fa, ripreso su Lavoce.info, che non riscontra conseguenze particolari legate al numero dei 15 dipendenti, anzi segnala che gli effetti sono simili a quelli che si producono in corrispondenza delle soglie che fanno scattare l’obbligo di assunzione di categorie protette.

http://www.lavoce.info/articoli/-lavoro/pagina1002824.html

Né lo sviluppo abnorme del lavoro precario può esser addebitato all’ Art. 18, come con troppa semplicità fanno i suoi detrattori.

E’ bene avere chiaro, intanto, che sui circa 3.300.000 lavoratori con contratti diversi da quello a tempo indeterminato (comprese le finte partite IVA – dati al 1.1.2011 Elaborazione Ufficio Studi CGIAA su dati Istat), più di un milione, oltre il 34 %  dei “non garantiti”, lavorano, paradossalmente, nel settore pubblico.

http://cdn1.cgiamestre.com/wp-content/uploads/2012/07/precari.pdf

E basta una semplice ricerca in rete per verificare come la crescita dei “lavori precari”, purtroppo, sia un dato comune anche agli altri paesi europei. Solo per dare un dato in Germania circa 9 milioni di lavoratori sono occupati con contratti atipici, ma si potrebbe continuare con molti altri esempi.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-11-05/in-europa-boom-contratti-atipici-nodo-tutele-lavoratori-l-assenza-regole-condivise-133636.shtml?uuid=ABPtWbb

Come si vede non emerge alcun  particolare e significativo spostamento statistico delle dinamiche del mercato del lavoro che possa farsi risalire all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Evidentemente il ricorso a forme di lavoro precario non costituisce un’anomalia italiana, ma uno dei modi “naturali” di operare delle imprese europee, quanto meno in questo periodo di crisi.

Pur con le necessarie riserve che comporta l’uso di dati così generali, le conseguenze di questo insieme di cose mi sembrano abbastanza evidenti.

La forza della protesta: valori ed interessi

Quando si parla di abolizione dell’art. 18 non si tocca solo un tema particolarmente sensibile, come la “libertà di licenziare”, oggi più pudicamente chiamata “flessibilità in uscita”, ma una realtà profonda della società italiana ben diversa dalle rappresentazioni che ne vengono date.

Contrariamente a quello che ci viene raccontato l’art. 18 è ben di più di un “simbolo”, poiché interessa concretamente diversi milioni di persone (e di famiglie), che preoccupate di una crisi che sembra avvitarsi su se stessa, vedono improvvisamente messa in discussione la stabilità del loro lavoro senza nessuna concreta  contropartita.

Né le pur giuste misure contro la precarietà possono far cambiare il loro giudizio, e non solo perché non le riguardano personalmente.

Chi lavora nelle aziende private sa bene, per esperienza diretta, che nella maggioranza dei casi, più che la facilità di licenziare,  il vero motore della precarietà è l’inesistenza dei vincoli del CCNL e la possibilità di pagare stipendi da fame, per di più con oneri contributivi ridotti al minimo se non addirittura inesistenti.

Non contano, poi, solo i numeri, ma anche la qualità del dissenso.

Com’è ovvio le aziende sopra il 15 dipendenti sono concentrate nelle regioni più industrializzate del centro nord ed è al loro interno che si trova la maggior parte della rappresentanza e dell’organizzazione sindacale periferica.

Il dibattito sull’art. 18 coinvolge, così, un mondo traversale, di cui la stessa CGIL rappresenta probabilmente una minoranza, che mette insieme dipendenti di tutte le età, fedi politiche e rappresentanze sindacali, concentrati nelle regioni più economicamente sviluppate del paese.

Questo, e non i rimpianti ideologici di una “sinistra che fu”, spiegano l’intensità e la forza dell’opposizione che si è manifestata nella società italiana tutte le volte che si è cercato di eliminare questa norma.

Anche il Governo Monti se ne accorse quando, con sorpresa, scoprì che più di due italiani su tre (ben il 67%) erano contrari alla sua proposta di abolizione dell’art. 18 e patì per questo il primo brusco ed improvviso calo del gradimento al 44% dal 50-60% di consenso rilevato sino ad allora.

http://www.corriere.it/politica/12_marzo_25/mannheimer-consenso-esecutivo_d34a89ac-764d-11e1-a3d3-9215de971286.shtml

Certo Renzi non è Monti, ha un altro piglio ed una ben diversa capacità comunicativa; non a caso il premier concentra l’attenzione sul superamento della dualità del mercato del lavoro e sulle iniziative per migliorare la condizione dei lavoratori precari.

Questa lettura in certo qual modo di “sinistra” è, però, inevitabilmente destinata a scontrarsi con il fatto che nessuna delle misure di cui si discute a favore del lavoro atipico ha un qualsiasi pur minimo collegamento con l’art. 18.

La contraddizione sarebbe poi clamorosa se in nome del superamento della divisione dei lavoratori tra “garantiti” e “non garantiti”,  se si scegliesse la strada di limitare l’abolizione dell’art. 18 ai soli “nuovi assunti” a tempo indeterminato, sancendo così  - per evidente ignavia politica - proprio la discriminazione che si dice  di voler eliminare.

In realtà non esiste nessuna evidenza che permetta di sostenere che l’abrogazione dell’art. 18 produrrà più lavoro, se non il pregiudizio – questa si tutto ideologico – che l’occupazione aumenti se più è facile licenziare.

Che ciò accada su proposta del Segretario del Partito Democratico rende questa vicenda solo ancora più incomprensibile, errata ed ingiusta".

Massimo Matteoli, Componente Assemblea Federazione PD Empolese Valdelsa

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