Quando Cassius Clay prese a pugni i Beatles

Il 18 febbraio 1964, giunse a conclusione una serie di eventi che condussero all'incontro fra la promessa dello sport e le promesse del pop


(Questo post è una versione estesa dell'articolo uscito il 14 febbraio scorso su Alias, il supplemento settimanale del manifesto).

Nel luglio del 1963, il nuovo detentore della cintura mondiale dei massimi era senza rivali. L’imponente e minaccioso Sonny Liston, un avanzo di galera che ignorava la sua data di nascita e versava alla mafia italo-americana più della metà dei suoi guadagni, aveva conquistato il titolo demolendo in meno di un round l’amletico Floyd Patterson. La rituale rivincita era durata quattro secondi di più, inclusi però due conteggi a otto per l’ex campione. Liston pensò allora di concedere una chance all’emergente Cassius Clay, il sinuoso e linguacciuto giovanotto di Louisville che si era fatto largo fra gli sfidanti tanto con il suo jab che con la sua sbruffoneria. Secondo la visione di Liston, sarebbe stato un match comodo e di grande richiamo: i fatti lo avrebbero smentito su entrambi i fronti.

Floyd Patterson atterrato da Sonny Liston

Floyd Patterson atterrato da Sonny Liston

L’establishment pugilistico non aveva simpatia per l’arrogante Liston, ma neanche per le smargiassate di Clay e per il suo stile leggiadro e veloce. Jimmy Cannon, il decano dei cronisti di boxe, lo ribattezzò il “quinto beatle”, con ciò intendendone sottolineare l’inconsistenza, la finzione e il vano agitarsi. Ai suoi occhi, l’improbabile pugile-ballerino e gli urlatori di Liverpool rappresentavano la quintessenza dei capelloni svagati, delle ragazze dall’aria ambigua, dei pittori attratti dalle lattine di minestra. Cannon e i suoi pari avrebbero al massimo potuto simpatizzare per la pudica Gigliola Cinquetti, che in quello stesso 1964 vinceva il festival di Sanremo con “Non ho l’età”, ma vedevano un segno di irredimibile dissoluzione nelle ragazzine adoranti che, in preda a isteria sessuale, bagnavano le sedie su cui assistevano ai concerti delle allusive rockstar (i famosi wet seats). Tuttavia, come cantava Bob Dylan, i tempi stavano cambiando e quella stessa gioventù avrebbe di lì a poco marciato per i diritti civili, protestato massicciamente contro la guerra nel Vietnam e operato il più radicale ribaltamento culturale della storia. Di quell’utopia giovanile, i Beatles e Clay avrebbero preso la testa e la più celebre fotografia del loro incontro ci pare oggi un simbolo così lampante dei formidabili anni ’60, che la si considera un ben meritato esito di una campagna pubblicitaria meticolosamente architettata. Invece, i Fab four incontrarono The Greatest quasi fortuitamente, al termine di una catena di eventi in cui l’imponderabile ebbe un ruolo non secondario. Soprattutto nel caso dei Beatles.

Fra la primavera e l’autunno del 1963, i Beatles erano passati dallo sbarcare a fatica il lunario negli equivoci night-club di Amburgo all’imporsi come il fenomeno musicale più dirompente della storia del pop. In Gran Bretagna e in Europa vendettero d’improvviso milioni di dischi, ma negli Stati Uniti, dove era stato coniato il sound di cui erano diventati gli alfieri più celebrati, il successo restava sfuggente. La Capitol Records, affiliata statunitense della EMI che li pubblicava in Europa, rigettò per quattro volte le proposte del manager Brian Epstein. Allora, Epstein provò con Ed Sullivan, sorta di Pippo Baudo americano che sulla CBS, la prima tv nazionale, conduceva l’omonimo show dal 1948, e riuscì a convincerlo a ospitare il gruppo per tre serate nel febbraio successivo al minimo compenso. Sullivan conosceva i quattro ragazzi col caschetto, poiché poco tempo prima li aveva visti acclamati da una moltitudine di teenager iper-eccitati all’aeroporto di Londra. Appresa la decisione di Sullivan, che nel 1956 aveva già presentato alle famiglie americane il sensuale Elvis Presley, la Capitol Records riconsiderò la sua posizione e impostò il varo del primo singolo beatlesiano per il 13 gennaio 1964. Come parte della campagna promozionale, un servizio sulla beatlesmania che aveva travolto il vecchio continente fu trasmesso dalla CBS la mattina del 22 novembre 1963, senza però originare apprezzabili effetti sul pubblico di casalinghe e anziani che a quell’ora guardava la tv. La prevista replica del prime time, in coda al notiziario della sera, però non ebbe mai luogo. All’ora di pranzo, l’America fu scioccata dalle notizie in arrivo da Dallas: il presidente John Fitzgerald Kennedy era stato ucciso a fucilate e i palinsesti di tutti i network furono rivoluzionati.

Cronkite informa gli americani che il presidente Kennedy è stato ucciso

Cronkite informa gli americani che il presidente Kennedy è stato ucciso

A quel punto entrò in scena Walter Cronkite, il famoso anchorman che ha raccontato all’America le vicende della seconda guerra mondiale, la Corea e il Vietnam, Martin Luther King, la conquista della Luna e lo scandalo Watergate. Il 10 dicembre, Cronkite pensò che il paese meritasse una storia spensierata dopo la tragica perdita del suo giovane presidente, si rammentò di quel rullo sui Beatles e lo trasmise.

Fu l’innesco di una serie di eventi travolgenti, cui va di fatto ascritta l’esplosione della beatlesmania di là dell’Atlantico, e che inclusero: la subitanea infatuazione di una quindicenne del Maryland che scrisse alla locale radio per chiedere la stessa musica appena ascoltata in tv; l’immediato attivarsi di uno dei disc-jockey che recuperò una copia di I want to hold your hand (ancora inesistente negli Usa!) grazie a una hostess che volava sulla tratta Washington-Londra; l’annuncio del primo 45 giri dei Beatles mai suonato negli Stati Uniti da parte dell’adolescente di cui sopra alla stessa radio; la tempesta di telefonate che istantaneamente ne sommerse il centralino e la conseguente decisione di mandare in rotazione solitaria il disco, che prese a essere reclamato senza successo presso i rivenditori.

La prima reazione dei dirigenti della Capitol Records, saputo che il singolo in attesa di uscire era già incessantemente in onda, fu di incaricare un legale affinché vietasse alla radio di suonarlo. Fino a che non venne a saperlo Alan Livingston, il presidente della compagnia, al quale saltò all'occhio l’assurdità della vicenda: di norma, le case discografiche spendevano fior di quattrini per indurre le radio a trasmettere i loro dischi e perseguitarne una per non farlo rappresentava un autentico nonsense. La Capitol Records revocò allora le ferie del personale, spinse al massimo la macchina organizzativa e anticipò l’uscita del singolo al 26 dicembre 1963. Il 16 gennaio, con oltre un milione di dischi smerciati, i Beatles si installarono in testa alla hit-parade. I mass media si gettarono su quella nuova frenesia e gli adesivi con le loro facce tappezzarono a milioni le carrozzerie delle auto. L’America in lutto aveva trovato il suo diversivo e tutto era pronto per la British Invasion.

Quando il 7 febbraio 1964 i Beatles atterrarono all’appena rinominato aeroporto Kennedy di New York, furono travolti dall’accoglienza delirante di migliaia di fan. I cinici reporter newyorkesi si avventarono per spazzar via l’ennesima schiuma superficiale che increspava il volubile oceano giovanile, ansiosi di deridere gli stereotipati grugniti monosillabici che le stelle del rock opponevano per solito alle domande della stampa. Invece, furono sorpresi e conquistati dal comportamento esuberante, spiritoso e autoironico di John, Paul, George e Ringo. L’attesa per l’esibizione all’Ed Sullivan Show si fece spasmodica e il 9 febbraio, alle 9 della sera, i Beatles eseguirono sei canzoni di fronte a 73 milioni di americani, il 40% della popolazione del paese!

Nel frattempo, la prevendita per il mondiale Liston-Clay di Miami languiva. Dopotutto, per i ricchi bianchi della Florida, gli unici che potevano acquistare i biglietti, si trattava del match fra un sicario della malavita e un teppistello in odore di Islam. Cogliendo la palla al balzo, il 18 febbraio, gli organizzatori portarono i Beatles a visitare i pugili, ma Liston li respinse sprezzante: «Non ho alcuna intenzione di farmi fotografare con quelle femminucce». Quasi alla disperazione, i promotori spinsero i Beatles nella palestra di Clay e la scintilla scoccò: le promesse della musica e la promessa dello sport entrarono in sintonia, scherzarono e si presero in giro per la gioia dei fotografi.

Clay apostrofò per primo McCartney: «Sei il più carino, ma non quanto me!». Presto Clay si impose, ordinava ai Beatles come posare, quando gettarsi a terra, come incassare i finti colpi davanti ai flash. Poi, il pugile prese in braccio Ringo Starr, lo scagliò in aria e lo riacciuffò. Clay augurò buona fortuna alla band e improvvisò due versi contro il campione: «Quando Liston leggerà che i Beatles mi sono venuti a trovare, impazzirà e in tre round lo potrò atterrare!».

Clay solleva Ringo Starr

Clay solleva Ringo Starr

Ma non tutto era come sembrava. Già durante gli scatti, Clay si era rivolto ai quattro dicendo: «Però non siete così scemi come sembrate!». «Tu invece sì!», gli aveva fatto eco Lennon. Secondo Harry Benson, il fotografo dei cantanti, i Beatles non avevano troppo apprezzato l’incontro: pensavano di confrontarsi con un sempliciotto e invece si erano trovati di fronte uno che li aveva veramente stesi. Ancora John aggiunse: «Clay ci ha ridicolizzati».

Il 25 febbraio 1964, Liston inseguì vanamente lo sfidante sul ring del Convention Centre, sfiancandosi nel tentativo di centrarlo con i suoi poderosi ganci. Provò ad accecarlo con una sostanza urticante che i secondi gli spalmarono sui guantoni, ma non fu capace di sferrare il colpo del KO. Quando Clay si snebbiò, con i talloni ben piantati sul tappeto, investì il volto del campione con fendenti precisi come colpi di martello su un chiodo. Alla fine della sesta ripresa, Liston non si alzò dallo sgabello e cedette sorprendentemente la corona mondiale. L’indomani, Cassius Clay cessò di esistere: svelando al mondo la sua conversione all’Islam, il pugile annunciò che da quel momento tutti avrebbero dovuto chiamarlo Muhammad Ali. Adesso, lui e i Beatles erano pronti a cavalcare l’onda dei grandi mutamenti sociali e generazionali, che avrebbero così profondamente contribuito a forgiare.

Paolo Bruschi