I 70 anni di Franz Beckenbauer

Il calciatore all'origine del dominio tedesco del gioco nacque a Monaco di Baviera l'11 settembre 1945


Franz-Beckenbauer

Franz Beckenbauer, l’indiscusso Kaiser del calcio tedesco, compie 70 anni. La maggiore televisione pubblica della Germania lo ha convenientemente celebrato con un lungo e bel documentario, benché non sia lui il calciatore più amato dai connazionali, che gli preferiscono il ricordo romantico di Fritz Walter o l’esuberante e generoso Uwe Seeler, o l’umorale e bellissimo Günter Netzer. Beckenbauer paga il fatto di essere profondamente bavarese, il che basta a renderlo inviso a mezzo paese, e secondariamente di rappresentare l’immagine di una Germania tradizionale, potente, monoculturale e temuta. Quali che siano le ragioni di tale freddezza sentimentale, non possono impedire che Beckenbauer sia considerato ancora oggi il miglior giocatore mai espresso dal movimento calcistico tedesco.

Se il confronto fra atleti che hanno gareggiato in tempi e circostanze diverse è sempre viziato da valutazioni più soggettive che oggettive, occorre indubitabilmente riconoscere che Beckenbauer fu sulla plancia di comando nel periodo in cui la Germania Ovest (allora permaneva la divisione fra Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Democratica Tedesca) costruì la propria immagine di nazionale vincente e irriducibile, instaurando un’egemonia sul calcio internazionale che per continuità ad alto livello è superiore persino a quella del Brasile. Eppure, quando Beckenbauer esordì nel Bayern Monaco e poi in nazionale nel settembre 1965, il fußball era ben lontano dal vertice della graduatoria mondiale. A livello di club, mai una squadra tedesca aveva vinto una coppa europea (il digiuno sarebbe stato interrotto proprio dal Bayern, che si aggiudicò la Coppa delle coppe nel 1967). La migliore prestazione restava la finale di Coppa dei campioni disputata nel 1960 dall’Eintracht Francoforte, che peraltro era stato spazzato via dal Real Madrid di Puskas e Di Stefano con l’umiliante punteggio di 7-3. La deutsche mannschaft aveva sì vinto la Rimet del 1954 contro la favoritissima e presuntuosa Ungheria, ma quell’inaspettato trionfo era da molti sminuito perché propiziato dalla fortuna di un sorteggio sfacciatamente favorevole o addirittura da pratiche di doping sistematico. Negli anni successivi, la Germania era parsa diventare una splendida perdente, costantemente nel gruppo di testa ma mai capace di stringere il successo pieno. Come detto, la transizione alla condizione di dominus del calcio mondiale fu operata sotto la direzione di Kaiser Franz e passò per l’affermazione di un primato da allora mai più intaccato sugli allora maestri del football, i bianchi d’Inghilterra.

Charlton e Beckenbauer durante la finale di Wembley vinta dagli inglesi per 4-2

Charlton e Beckenbauer durante la finale di Wembley vinta dagli inglesi per 4-2

Beckenbauer cominciò nel ruolo di mediano, sfoggiando una visione di gioco cristallina, un tiro secco e preciso e un portamento regale come raramente si era visto sul rettangolo verde. Ai Mondiali del 1966, condusse i compagni in finale, orchestrando la manovra a centrocampo e segnando addirittura quattro gol, che gli valsero il terzo posto nella classifica dei marcatori. A Wembley furono però i padroni di casa a imporsi, ancorché grazie al più famoso “gol fantasma” della storia del gioco. Il giovane Franz, opposto al geniale ed esperto Bobby Charlton, fece la figura del pivello e i tifosi inglesi coniarono l’urticante coro "Due Guerre mondiali e una Coppa del mondo", a testimonianza di una supremazia che pareva destinata a non essere più scalfita. Nel giugno del 1968, ad Hannover, tedeschi e inglesi si incontrarono in amichevole e l’unica rete di Beckenbauer significò la prima vittoria della Germania sull’Inghilterra in quasi 40 anni di confronti diretti. Hugh McIlvanney, inviato dell’Observer, tuttavia commentò: «Paragonare questa miserevole esibizione, in cui i falli hanno di gran lunga superato gli esempi di bel gioco, con l’ultimo grande incontro fra i due paesi è del tutto stupido. Ma questo non impedirà ai tedeschi di farlo. I loro festeggiamenti non saranno inibiti nemmeno dalla consapevolezza che gli sconfitti di oggi sono di fatto una formazione di riserve e persino la noia che hanno condiviso con noi gli sarà sembrata utile. Hanno battuto l’Inghilterra e questo è abbastanza».

Nel 1970, la Coppa del mondo si disputò in Messico. Agli Europei di due anni prima, vinti a Roma dagli azzurri, l’inghilterra aveva collezionato un onorevolissimo terzo posto, mentre la Germania Ovest aveva mancato la qualificazione alla fase finale. Le due squadre furono di nuovo di fronte nei quarti di finale del Mundial messicano. Sotto il sole cocente di Leon, i bianchi di Sir Alf Ramsey si assicurarono un doppio vantaggio, che conservarono oltre la metà del secondo tempo. Poi, all’improvviso, si liquefecero, dando modo all’incrollabile volontà teutonica di manifestarsi sotto forma di un mortifero uno-due siglato da Beckenbauer e Seeler, peraltro con la decisiva collaborazione del portiere Peter Bonetti, sostituto dell’imperforabile Gordon Banks, appiedato in extremis dalla maledizione di Montezuma. Nei supplementari, seguii l’immancabile segnatura del prolificissimo Gerd Müller.

Il fatto che la débâcle potesse essere attribuita al forfait di Banks, alla sventurata prestazione del suo secondo e alla malconsigliata decisione di Ramsey di sostituire Charlton con la squadra ancora in vantaggio per preservarlo per la finale, insieme alla successiva sconfitta dei tedeschi contro l’Italia nella “Partita del secolo” – che Kaiser Franz giocò a lungo con il braccio al collo per un precoce infortunio –, convinse gli inglesi di poter beneficiare di un immutato vantaggio psicologico sui tedeschi.

Nel 1972, per i quarti di finale dei Campionati europei, da giocarsi nell’arco di 180 minuti, le due potenze del calcio continentale si affrontarono ancora. Beckenbauer aveva intanto retrocesso il raggio d’azione, portando la propria classe e il proprio acuto raziocinio alle spalle della linea dei difensori. Da quella posizione, avrebbe fornito l’interpretazione archetipica del ruolo di libero di costruzione, sulle cui tracce si sarebbero di lì a poco incamminati altri mostri sacri del calibro di Ruud Krol, Daniel Passarella e Gaetano Scirea. La partita di andata si giocò a Londra il 29 aprile 1972, il giorno che i supporter inglesi ricordano come la data che segnò la fine dell’Impero britannico del football: Uli Hoeness, Netzer e Müller finalizzarono in rete una schiacciante dimostrazione di superiorità, cui l’Inghilterra oppose soltanto la rete della bandiera. Al ritorno, nello stadio Olimpico di Berlino, lungi dal costituire una minaccia per i padroni di casa, gli inglesi si limitarono a picchiare scientemente l’imprendibile Netzer e il guizzante Hoeness, così che anche la conclamata sportività britannica ne uscì assai malconcia. Ancora McIlvanney scrisse: «Nessun inglese potrà mai più crogiolarsi nella convinzione che, sul campo di calcio se non altrove, i tedeschi sono una razza inferiore».

Quel doppio confronto segnò una divaricazione nelle traiettorie delle due nazionali, che da allora si mossero in direzioni opposte. Gli inglesi iniziarono un digiuno che dura ancora oggi e la Germania prese a vincere indefessamente, cominciando proprio dagli Europei del '72 e dai Mondiali casalinghi di due anni dopo, quando Beckenbauer capitanò la squadra che infranse i sogni di gloria della splendida Olanda di Johan Cruijff. Dal “Profeta del gol”, Kaiser Franz aveva raccolto il testimone anche a livello di club, poiché alle tre Coppe dei campioni dell’Ajax erano seguite le tre consecutive dei rossi bavaresi, per la prima volta sul tetto d’Europa.

Beckenbauer e Cruijff il 7 luglio 1974, nella finale di Monaco di Baviera

Beckenbauer e Cruijff il 7 luglio 1974, nella finale di Monaco di Baviera

Beckenbauer si concesse un viale del tramonto dorato, andando a infoltire il gruppo di vecchie celebrità che tirava gli ultimi calci per i New York Cosmos. Da allenatore non fu meno carismatico e si coprì ugualmente di gloria alla della nazionale. Ai Mondiali del 1986, di nuovo in Messico, spinse una squadra un po’ invecchiata oltre i suoi limiti e oltre avversari sulla carta più attrezzati, prima di inchinarsi all’Argentina del Maradona più forte di sempre. Compì però la sua vendetta quattro anni dopo, a Italia ’90, superando l’Albiceleste con un rigore dubbio e, in verità, al termine della finale forse più brutta di tutti i tempi.

Uscì di scena alzando ancora il massimo trofeo calcistico. In cinque edizioni dei Mondiali, fra campo e panchina, non scese mai dal podio, totalizzando un terzo posto, due secondi e due vittorie, un record che potrebbe essere superato dall'oriundo polacco Miroslav Klose, se alla fine della carriera allenerà i bianchi di Germania.

Paolo Bruschi