Unity in Diversity: seconda giornata dedicata al ruolo dei media e dei social nel dialogo tra culture

Come il giornalismo, la televisione, la fotografia possono giocare un ruolo fondamentale nella rappresentazione delle questioni mondiali. Etica e responsabilità nella scomposizione degli stereotipi e delle false rappresentazioni, per favorire il dialogo fra le culture, gruppi sociali e minoranze. Il ruolo del digitale e dei social media nella costruzione di una cultura di pace. Questi i temi della seconda sessione di questa seconda giornata di Unity in Diversity.

A prendere per prima la parola è stata il Premio Nobel per la Pace Tawakkol Karman, attivista yemenita, membro del partito Al-Islah (Congregazione Yemenita per la Riforma), e leader dal 2005 del movimento &1583;‎, Giornaliste senza catene), gruppo umanitario da lei creato.

“La libertà di espressione è la cosa più importante – ha detto la Karman –. Non ci può essere democrazia senza conoscenza, e non può esserci conoscenza senza libertà di espressione. Per questo in Yemen la gente lotta, attraverso tutte le forme di espressione: il canto, la pittura, la scrittura, rischiando la vita per affermare la propria libertà.
Il regime non permette ai media di parlare perché ha paura dell’opinione della gente. Oggi, nel 2015, media significa anche internet e i social media, mezzi che danno libero accesso a informazioni e ad opinioni, e anche grazie a questi mezzi noi possiamo portare avanti la nostra lotta”.

La Karman ha poi chiuso il suo intervento lanciando un forte appello. “La cittadinanza è il diritto di ogni persona, la voce di chi non ha voce deve essere ascoltata in tutto il mondo. Il resto del mondo non può continuare ad osservare in silenzio. Questo deve essere il secolo della Pace, dei diritti delle persone, della cittadinanza globale. Questo è il mondo delle persone, e le persone hanno bisogno di conoscenza. Senza conoscenza si perde la dignità delle persone. Tutti i piccoli villaggi del mondo devono diventare un’unica grande famiglia”.

A seguire ha preso la parola Gabriele Micalizzi, rappresentante del Collettivo Cesura (Mostra collettiva di fotografia).

“Sono un fotogiornalista e rappresento il Collettivo Cesura, gruppo di persone che utilizza il linguaggio della fotografia nato nel 2008. La nostra spina dorsale, come formazione, è il fotogiornalismo. Il nostro mentore, Alex Maioli della prestigiosa agenzia Magnum, ci ha insegnato i valori e l’etica che stanno dietro questa professione. Principalmente ci occupiamo di conflitti coprendo appunto la news internazionali, e riprendiamo storie legate al sociale. Nel 2014 abbiamo perso uno dei nostri in Ucraina mentre stava seguendo il conflitto tra i ribelli e l’esercito ucraino a Sloviansk. Da qual giorno è diventata per tutti noi una missione portare avanti la professione del fotogiornalista e l’etica che vi sta dietro. Guardavo questa sala, guardavo quello che è affrescato su queste pareti e sono immagini di guerra. Perché è importante ricordare la guerra? Perché se non si ricorda il passato, chi siamo stati, cosa è successo, le motivazioni che hanno spinto ad arrivare al conflitto, non si può creare un futuro migliore. Ed è da qui che vorrei partire per riflettere sulla nostra condizione di esseri umani e di cittadini. Sono qui perché ho lavorato nel Kurdistan siriano e ho avuto un’esperienza molto da vicino con il sindaco di Kobane. Sono riuscito ad entrare, illegalmente perché è l’unico modo per entrare in Siria, passando dalla Turchia. C’è stato un supporto incredibile da parte del sindaco perché ha capito qual era la situazione e ha capito cosa poteva fare per i media in quel momento.

Quando mi trovavo lì c’era la grossa battaglia di Talabiad, che ha aperto un corridoio tra un cantone e l’altro (il Kurdistan è diviso in cantoni). Io volevo andare verso il Corridoio tra un cantone e l’altro, verso Qamishlo, ed il sindaco di Kobane, referente dell’area, ha capito la necessità di avere delle prove di questo conflitto e di portare fuori queste immagini e documentazioni importantissime. Mi ha aiutato a passare il corridoio, nonostante sia un rischio anche per loro perché sono responsabili della nostra incolumità. Ha ascoltato: è un sindaco che sta sempre in mezzo alle persone e capisce la necessità di affrontare i problemi. Grazie a lui sono riuscito a fotografare i prigionieri dell’ISIS. Questa esperienza mi ha permesso di riflettere sul fatto che in una zona di conflitto le Istituzioni devono essere molto flessibili e cambiare in continuazione ed adeguarsi alla situazione perché tutto cambia ogni 5/10 minuti, non c’è stabilità, anche per le Istituzioni stesse. Flessibilità e comunicazione sono quindi temi di cui parlare, perché in una zona di conflitto è importante che ci sia una non propaganda, qualcuno che rappresenti l’idea e sia un occhio vigile e rappresenti la stampa internazionale. Ci deve essere sempre un occhio esterno pronto a recepire e a riportare ciò che accade all’esterno di questa situazione che è quasi sempre caotica e difficile da raccontare”.

Paolo Woods ha invece parlato a nome di Riverboom, progetto fotografico che coinvolge Italia, Francia e Svizzera.
“Non credo si tratti solo di dare voce a coloro che non sono ascoltati: il nostro lavoro consiste nel concentrarsi su storie cui è difficile accedere, sia che si tratti di una storia di guerra o una storia sui paradisi fiscali. Sono storie diverse, ma si tratta di giornalismo e solo un giornalista può lavorare a lungo termine per fare questo tipo di studio. Nel 2009 sono stato in Iran durante il Movimento Verde ed è stato un momento molto forte; in migliaia di persone si sono riversate per le strade con assembramenti spontanei. Le foto più vere e forti erano quelle che gli iraniani facevano con i loro cellulari e macchine fotografiche e postavano su social media. Io come giornalista dovevo cercare di andare più in profondità e cercare di scrivere una storia su più livelli. Il nostro ruolo perciò come fotografi, come giornalisti, è di cercare quelle storie che non sono sotto l’occhio e non si sospettano nemmeno: storie necessarie, sincere e approfondite. Ci sono due fasi fondamentali da seguire: prima elaborare e far vedere, perché molto spesso siamo troppo chiusi, facciamo le foto per editori e colleghi mentre dobbiamo portarle a tutto il pubblico. L’altra cosa importante è di riportare il lavoro da dove viene: ogni progetto che facciamo, sia che riguardi il colonialismo cinese in Africa, o il lavoro svolto ad Haiti o Iran, cerchiamo sempre di riportarlo ‘a casa sua’. Non potendo divulgare in Iran il libro che conteneva il lavoro svolto lì, lo abbiamo caricato sui social media in PDF: è stato scaricato migliaia di volte dagli iraniani ed è stato uno dei libri più letti. Riportare il lavoro a casa, da dove viene, dove è stato creato: questo deve essere il senso del nostro lavoro”.

Presente alla sessione anche un altro progetto fotografico, il “Terra project”
“L’industria dei media oggi ha sviluppato fortissimi interessi politici ed economici. Il nostro sforzo come collettivo di fotografi, è quindi cercare di andare contro il giornalismo di propaganda. È difficile raccontare con obiettività gli eventi storici, perché non si riesce mai a capire dove sta il bene e dove il male. Ma ogni evento storico è costituito da una moltitudine di sfumature e punti di vista. In questo senso, il nostro lavoro si pone l’obbiettivo di dare al lettore tutti gli strumenti utili per potersi orientare nel mare dell’informazione, creandosi una coscienza e un’opinione propria e indipendente”.

Chriss Aghana Nwobu, artista nigeriano, ha spostato l’attenzione sulla situazione attuale del suo Paese.
“Nel nord della Nigeria c’è, purtroppo, lo stereotipo secondo cui anche i bambini che vanno a scuola sono dei terroristi. Questa idea è portata avanti dall’opinione pubblica e dai mass media. Io però ho visto con i miei occhi la realtà e posso dirvi che non tutti questi bambini sono coinvolti nei gruppi terroristici di Boko Haram o simili. La maggior parte di loro va a scuola, come tutti i bambini degli altri paesi. E posso dirvi anche che un gran numero di uomini di affari del nostro paese proviene da quelle stesse scuole. Penso quindi che sia molto importante conoscere a fondo le storie che leggiamo o sentiamo alla tv, perché se viene raccontata una realtà diversa, si fa disinformazione e questo non è certo un bene”.

Le conclusioni sono state affidate alla Premio Nobel Tawakkol Karman, che ha affermato: “Penso che i mass media debbano essere onesti e parlare di ogni cosa. Mi riferisco, ad esempio, al conflitto che c’è nello Yemen. Non è un conflitto tra sunniti e sciiti, ma tra la dittatura e la libertà, perché in quel paese le persone stanno lottando contro la dittatura”.

Unity in Diversity, il premio Nobel Shirin Ebadi: “Sull’Isis non buttate bombe ma libri”

“L’ultima volta che sono stata a Firenze era il 2009, anno di elezioni importanti e scandalose in Iran. Milioni di persone in disaccordo con il risultato delle elezioni scesero in piazza e molte furono uccise e arrestate. Firenze mostrò solidarietà con il popolo iraniano esponendo un drappo verde da Palazzo Vecchio che rimase visibile per molto tempo. Questo gesto fece capire al popolo iraniano quanto fossero legate le nostre due comunità. Noi ancora lo ricordiamo e speriamo che l’allora sindaco, oggi premier Matteo Renzi sia attivo per la libertà delle persone del movimento verde arrestate senza alcun capo di imputazione e ancora oggi agli arresti domiciliari. Ora l’Iran ha un nuovo presidente, il popolo sperava che le condizioni migliorassero ma la situazione dei diritti umani non è migliorata, le persone arrestate non sono liberate ed è aumentato il numero delle persone giustiziate, una persona ogni sette minuti. Due giorni fa, sette giornalisti sono stati arrestati: secondo Reporter senza frontiere l’Iran è il più grande carcere di giornalisti del mondo.

Solo la pressione delle sanzioni ha costretto il regime a firmare un accordo sul nucleare, che speriamo venga rispettato in concreto. Ma la situazione del popolo non migliora. Il Medio Oriente brucia nel fuoco della guerra e il motivo principale è l’ambizione politica di Arabia Saudita e Iran. Ogni giorno la gente viene uccisa o rimane senza tetto. Uno dei risultati di questa situazione è ben visibile in Europa ed è il grande flusso di profughi costretti ad accettare enormi pericoli per arrivare in un posto più sicuro. Il germe del terrorismo e dell’Isis cresce giorno dopo giorno. Ma perché il mondo non impara dall’esperienza? Non è con le bombe che si combatte l’Isis, non è uccidendo i terroristi ma affrontando l’ideologia sbagliata dell’Isis e la sbagliata interpretazione dell’Islam. Invece delle bombe buttate i libri sulla testa dell’Isis. Mi congratulo con Firenze per questo Forum, perché la pace non si crea con i bombardamenti ma con la cultura e l’arte”. Così il premio Nobel per la pace e cittadina onoraria di Firenze Shirin Ebadi intervenendo oggi in Palazzo Vecchio al Forum Unity in Diversity.

Tim Robbins ha presentato “The prison project”
Il regista e attore Tim Robbins, intervenendo nella prima sessione della seconda giornata di Unity in Diversity, ha raccontato l’esperienza “The prison project” nata dopo le riprese del film “Dead man walking” e l’incontro con Sorella Helen Prejean. “Proprio suor Helen – ha raccontato Tim Robbins – mi ripeteva che ogni uomo vale di più di qualsiasi errore commesso. Negli Stati Uniti c’è poca comprensione per i criminali ed il sistema carcerario è fallimentare. 7 prigionieri su 10 quando escono dal carcere tornano a commettere reati, spesso si drogano. Ho pensato allora di coinvolgere alcuni artisti nel “The prison project” ed andiamo nelle carceri a fare teatro. Creiamo gruppi che lavorano per otto settimane con i detenuti. Lavoriamo, attualmente, in sei istituti penitenziari, anche con i minori. Ci sono ragazzi timidi, alla prima esperienza con il teatro, che grazie al nostro progetto riescono ad aprirsi, a comunicare. Negli istituti dove lavoriamo c’è stata una netta riduzione di forme di violenza. L’arte è una necessità per la società. Non è frivolezza. Invece quando c’è da risparmiare sui conti, la cultura è sempre quella che subisce i tagli maggiori. Non si pensa che è meglio spendere 100 dollari per fare teatro nelle carceri invece di spenderne migliaia per mantenere i detenuti in cella. Bisogna correggere chi sbaglia senza violenza. Come ha detto il premio Nobel Shirin Ebadi dobbiamo combattere con i libri e non con le bombe”.

Il premio Nobel per la letteratura Dario Fo è intervenuto con un video dove ha raccontato la sua esperienza di attore e drammaturgo. “Ho lavorato molto con mia moglie Franca Rame in tanti teatri – ha detto Dario Fo – ma poi abbiamo scelto di esibirci soprattutto nei piccoli teatri, in quelli periferici. Abbiamo così parlato alla gente dei loro problemi. Ed è stata un’esperienza straordinaria”.

Awam Amkpa, direttore degli studi sull’Africa e drammaturgia presso la New York University ha illustrato tratti della tradizione artistica di New York. “Abbiamo lavorato per trasformare la società e combattere la paura per le differenze. L’Università non ha senso se non insegna alle persone a coronare la loro curiosità e il loro impegno per trasformare la società e combattere la paura per la differenza. Come creare questi spazi? Occorre guardare a fondo nelle piccole comunità e nelle città. Non guardare all’eredità chiusa in se stessa – ha aggiunto Amkpa – ma unificare attraverso l’arte e la cultura. Penso che l’immigrazione sia un diritto umano, occorre sviluppare strategie affinché ogni città sia il prodotto di questi flussi che sviluppano arte e cultura”.

Nardella: “Firenze pronta a supportare la ricostruzione del Centro culturale di Kobane distrutto dall’Isis”

“Firenze è disponibile e pronta, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità, a supportare la ricostruzione del Centro culturale di Kobane distrutto dall’Isis, un luogo simbolo dell’urgente ricostruzione della città. Mi auguro che questa idea possa essere raccolta con entusiasmo e con generosità dalle città che partecipano al forum affinché si possa compiere anche qui, da Firenze, un gesto concreto di supporto a una città che ha sofferto e sta soffrendo ancora moltissimo”. È il progetto che il sindaco Dario Nardella ha lanciato oggi pomeriggio dal Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, dove da ieri è in corso il forum ‘Unity in diversuity’. L’idea del sindaco Nardella arriva dopo che ieri il sindaco di Kobane, Mustafa Abdi, ha rivolto ai presenti al forum e all’opinione pubblica internazionale un appello accorato di aiuto della propria città.

“Molti di noi hanno vissuto storicamente l’emergenza di una ricostruzione, e quasi sempre a causa di guerre e conflitti, e abbiamo capito quanto la solidarietà sia stata decisiva perché la ricostruzione potesse essere portata a compimento - ha continuato Nardella -. Io mi sono permesso di chiedere al collega e amico sindaco di Kobane se vi è in particolare un luogo cittadino simbolo dell’urgente ricostruzione della città e lui mi ha parlato del loro Centro culturale, che rappresentava il cuore della vita culturale della città. Un luogo costruito dopo la seconda guerra mondiale dai francesi e ospitava al suo interno anche una biblioteca molto importante per la popolazione e veniva utilizzato per attività di studi, ricerche e anche per le attività della pubblica amministrazione”.
“Ogni città sa quello che può dare. Non conta l’entità dell’aiuto che viene dato, quello che conta è il gesto; è importante anche il più piccolo atto di collaborazione e di supporto - ha concluso Nardella -. Pertanto, invito ciascuno dei rappresentanti delle città che partecipano al forum ad impegnarsi per aiutare la città di Kobane con lo spirito che è proprio delle città, cioè quello della vicinanza ai cittadini”.

Il dibattito dei sindaci: “Cultura per combattere la guerra e renderci più aperti nell’accettazione degli altri”

Cultura per combattere la guerra. E garantire strumenti adeguati per accogliere chi è diverso da noi e garantire asilo a quanti scappano dai conflitti. Su questi temi, nel segno della solidarietà, si è aperto il dibattito dei sindaci nella sessione pomeridiana del forum ‘Unity in diversity’.
“Abbiamo obblighi nei confronti dei profughi - ha sottolineato Arnaud Robinet, sindaco di Reims - è toccato anche noi quando la nostra città, sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale, ha provato duramente il martirio della guerra. E abbiamo anche una responsabilità politica - ha aggiunto il primo cittadino della città francese - quella evitare che, contro l’accoglienza, si possa agire sulla paura dei cittadini”.

“Violenza ed esclusione - ha rammentato nel suo messaggio il sindaco della città di Fes, in Marocco - non sono una fatalità. La cultura è il vettore della pace e può unire attraverso il rispetto dell’altro”.

Falca Gheorghe, sindaco di Arad (Romania) ha ricordato come la sua città “nel 2010-2011, proprio nel periodo della crisi economica” abbia “aumentato i fondi per la cultura”. “Solo così - ha proseguito - si sarebbero potuti risolvere i problemi, anche quelli economici”.
L’assessore alla pubblica istruzione del Comune di Milano, Francesco Cappelli, ha ricordato l’iniziativa dell’amministrazione di istituire un ‘albo civico delle comunità religiose’, al quale si sono iscritte 52 diverse comunità. “Ogni credo - ha spiegato - è una componente fondamentale della cultura dei popoli e, quindi, non c’è evento religioso che non abbia importanza civica”. “Questo - ha annunciato - ci darà la possibilità di istituire, nel 2016, una conferenza metropolitana delle comunità religiose”. Cappelli ha poi citato l’altro progetto avviato dal Comune di Milano: “Incontriamo le religioni del mondo”, rivolto alle classi quinte delle scuole primarie: alle principali comunità religiose cittadine è stato chiesta la presenza di alcuni loro testimoni, durante una serie di incontri con i ragazzi, per parlare delle loro esperienze. Il progetto ha coinvolto 350 ragazzi.
“La cultura - ha ribadito il sindaco di Mogadiscio Hassan Mohamed Hussein - può portate la pace e rendere le persone più aperte nell’accettazione degli altri”.
Secondo Lia Olguta, primo cittadino di Craiova (Romania), “l’opinione pubblica non ha reagito in modo adeguato ai fatti che hanno colpito la città di Pamira”. “Noi - ha dichiarato - abbiamo il dovere di proteggere il patrimonio culturale che abbiamo. Lo dobbiamo ai nostri figli. La nostra città ha investito moltissimo nella cultura, negli ultimi anni, perché crediamo che rivesta un ruolo fondamentale nell’identità delle persone”.

Il progetto dell’amministrazione di Kuldiga per far capire l’importanza della loro identità e del loro patrimonio culturale è stato al centro dell’intervento di Inga Berzina, sindaco della città polacca. Si tratta di “laboratori artistici, culturali, eccetera, per aiutare i cittadini che vivono nel centro storico, a mantenere inalterato l’aspetto dei palazzi”. “Questi sono l’espressione architettonica della nostra identità culturale - secondo Inga Berzina - ed è importante che chi li abita conosca il loro valore”.
John Toiti, primo cittadino di Nairobi (Kenia), ha ricordato che questa metropoli “Nairobi oggi ospita oltre 5 milioni di persone, e 42 diverse tribù, che hanno culture diverse, ma vivono in armonia”. “Questo è un perfetto esempio di coabitazione - ha commentato -. Nel tempo siamo diventati anche un importante centro economico dell’Africa orientale. La nostra costituzione stabilisce che le donne devono avere un terzo della rappresentanza politica e siamo molto felici del fatto che negli ultimi anni abbiamo ospitato numerose personalità internazionali, come Obama o il Papa che sarà da noi tra poco”.

Unity in diversity, le migrazioni e i rifugiati, il ruolo della scienza e della tecnologia nei processi di pace tra i temi della terza giornata del forum

Le emergenze delle moderne migrazioni e il problema dei rifugiati, ma anche il ruolo che scienza e nuove tecnologie possono avere nei processi di pace: questi alcuni dei temi al centro della terza giornata di Unity in diversity, il ‘Glocal forum’ che si è aperto ieri a Firenze e che ha richiamato nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio sindaci e personalità da tutto il mondo per parlare di pace, dialogo e fratellanza tra popoli.

Il forum è stato voluto dal sindaco Dario Nardella a 60 anni dalla conferenza organizzata nel 1955, nel pieno della Guerra fredda, dall’ex sindaco ‘santo’ Giorgio La Pira. Oggi i nuovi temi di discussione sono le migrazioni, l’estremismo religioso, le crisi economiche, nuovi populismi e derive xenofobe. Il forum parte da qui e sarà incentrato sul ruolo che possono assumere le amministrazioni locali nella promozione del dialogo e della comprensione tra culture, religioni ed etnie diverse. Tra i sindaci presenti anche quelli di Kobane, Herat, Mogadiscio, Tunisi, municipalità dei Balcani e Palestina. Presenti anche premi Nobel (tra cui Shirin Ebadi, Tawakkol Karman, Wole Soyinka), e tanti protagonisti del mondo del giornalismo, della cultura, della finanza, della scienza.

Domani la prima sessione del mattino, dal titolo ‘Migrations: Challenges and opportunities. Refugees: Embracing the crisis’, vedrà la partecipazione tra gli altri di Laurens Jolles, referente del Sud Europa per l’Alto commissariato dei rifugiati dell’Onu. Nella seconda sessione mattutina, dal titolo ‘How Research and Technology can support cities in peace building strategies, social and development policies’ si alterneranno professori universitari e ricercatori. Interverranno i ricercatori Lorenzo Giorgi e Giacomo Battaini per illustrare il progetto di energia alternativa ‘Liter of Light’; Francesco Pavone del Lens dell’ateneo fiorentino; Ellen Baker dell’università di Houston; Sune Svanberg della Lund University (Svezia) e South China Normal University di Guangzhou in Cina; e Fernando Quevedo, direttore del centro internazionale di fisica teoretica Abdus Salam di Trieste. Nel corso della mattinata interverrà anche Fadhel Moussa, avvocato tunisino, professore di Diritto pubblico a Tunisi.

Al termine delle sessioni mattutine il sindaco Dario Nardella sarà intervistato pubblicamente dal direttore del Tg1 Mario Orfeo. Il forum si chiuderà domenica 8 novembre.

Pagiz: “La bellezza di Firenze conferma che questa città è il posto migliore per rilanciare la pace attraverso la cultura”

“La bellezza di Firenze conferma che questa città è il posto migliore per rilanciare la pace attraverso la cultura”. Lo ha sottolineato Nemanja Pagiz, vicesindaco di Sabac (Serbia) intervenendo nella sessione pomeridiana del forum ‘Unity in diversity.

“La nostra – ha aggiunto – è una piccola realtà dei Balcani, ma abbiamo un grande patrimonio storico. Le due Guerre Mondiali hanno distrutto la città e portato grande dolore e sofferenza: questi fatti ci ricordano che va fatta ogni cosa per salvaguardare la pace. Il modo migliore per farlo, anche in periodi di crisi e difficoltà, è raccogliere nuove sfide per realizzare un mondo senza guerre, legami tra persone e comprensione tra tutti popoli”.

Secondo Januz Chwierut, primo cittadino di Oswiecim (Polonia) “quando parliamo di pace dobbiamo sempre ricordare a cosa possono portare l’indifferenza, la xenofobia e l’intolleranza”. “Auschwitz – ha ricordato – è un luogo poco distante dalla nostra città: è diventato luogo simbolo dell’olocausto, teatro della più grande tragedia del XX secolo. Ricordare è l’elemento principale per proteggere la pace: chi non lo fa rischia di ricommette gli errori del passato. Oswiecim è diventata depositaria di questa tragica storia, ed è oggi città della pace che si fa ponte tra passato e futuro”.

“Non c’è dubbio – ha detto Haseeb Salim Khieleh, sindaco di Bir Zeit, Palestina -
che la pace sarà vera pace quando potrà creare sviluppo non solo economico ma anche culturale, sociale, scientifico e di convivenza”.
Per Emilio Perez Cuellar, sindaco di San Vicente del Caguan (Colombia) “sembra che la società di questo pianeta sia vittima di un ordine mondiale che ha delle intenzioni violente, dove è più importante il capitale finanziario che le persone”.

“A San Vicente– ha detto – fin dall’inizio abbiamo avuto un approccio preciso che si basava sulla costruzione della pace e con questo obiettivo abbiamo fatto una scommessa anche sulla cultura. Se ciò che si spende in violenza si investisse in cultura potremmo assicurare alle generazioni che verranno un futuro migliore e sereno”.
“E’ ormai diventato un imperativo che tutta l’Unione Europa – ha ribadito Ahmed El Ktibi, assessore alla solidarietà di Bruxelles – sia partecipe nell’accoglienza ai profughi, non solo Italia, Francia, Germania: tutti devono dare il loro contributo, perché a soffrirne sono solo i profughi».
“Tornerò nella mia città arricchita da questi giorni di incontri e dialoghi – ha commentato Michelle Sol, primo cittadino di Nuevo Cuscatlan (El Salvador) – riporterò quanto emerso dal nostro confronto”.

E' importante lottare – ha rilevato Martha Jara Saldana, rappresentante della città peruviana di Rimac - per garantire la salvaguardia della cultura e trasmettere un messaggio di speranza per le nuove generazioni”.

Fonte: Comune di Firenze - Ufficio stampa

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