L'incontro che non ci fu tra Cruijff e Videla

Il fuoriclasse arancione è mancato proprio nel quarantesimo anniversario del golpe argentino, preludio al Mondiale del 1978, cui l'olandese non prese parte


Il generale Jorge Rafael Videla preferiva il basket al calcio. Quel banale dettaglio divenne di un qualche rilievo il 24 marzo 1976, quando l’esercito prese il potere con la forza, pensionando Isabel Martínez de Perón e il suo governo corrotto e inconcludente. Le strade di Buenos Aires furono invase dai soldati di pattuglia e il coprifuoco chiuse le persone nelle case. Quando accesero la televisione, poterono ascoltare solo i perentori comunicati della Junta appena insediata, fino alle 9 della sera, allorché irruppe l’eccitata voce di José Maria Muñoz, il Nando Martellini delle Pampas, che da Chorzow raccontò ai telespettatori la sfida fra Polonia e Argentina.

I militari avevano deciso un’eccezione all’oscuramento televisivo, dato che il calcio era e restava una priorità nazionale, che finì subito all’ordine del giorno dei macellai in divisa. Nel momento in cui prendeva il via la “guerra sporca”, che avrebbe falciato un’intera generazione di giovani, studenti, intellettuali e operai, torturati, uccisi e fatti sparire dalla faccia della terra, fu stabilito di confermare la realizzazione del Mondiale di calcio di due anni dopo, che la FIFA aveva assegnato al paese sudamericano nel 1964. Videla era invece preoccupato dagli equilibri di bilancio e non capiva l’interesse che i suoi sodali, l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera e il generale Orlando Ramón Agosti, riponevano nella kermesse calcistica. Si lasciò però convincere e mise un militare a capo del neo-istituito Ente Autárquico Mundial, che avrebbe organizzato la manifestazione. Per completare la catena di comando, i generali si presentarono alla prima riunione dell’Asociación del Fútbol Argentino, misero le pistole sul tavolo e ottennero le dimissioni di tutto il comitato esecutivo. In 24 mesi, conclusero i lavori, lanciarono una martellante campagna di comunicazione per mostrare al mondo un paese felice e pacificato e, particolare decisivo, spinsero l’undici allenato da César Luis Menotti alla vittoria. Per farlo, Videla si mostrò negli stadi, esultò nelle tribune d’onore e scese negli spogliatoi a catechizzare i peruviani che erano l’ultimo ostacolo fra l’Albiceleste e la finale. Nello stadio Monumental della capitale, la cui costruzione il River Plate aveva finanziato con i proventi della cessione di Omar Sívori alla Juventus, il 25 giugno 1978, i padroni di casa superarono l’Olanda per 3-1 e ricevettero la Coppa del mondo dalle mani insanguinate dei despoti.

Videla consegna la Coppa del mondo a Daniel Passarella

Videla consegna il trofeo a Daniel Passarella

Gli olandesi erano privi del loro profeta. Johan Cruijff si era chiamato fuori dalla contesa molti mesi prima, annunciando che non avrebbe risposto alla convocazione di Ernst Happel, l’allenatore austriaco che sedeva sulla panchina degli orange. Senza twitter, facebook e instagram, la sua rinuncia divenne comunque virale e milioni di cartoline di tifosi in lutto lo implorarono di ripensarci. Cruijff non tornò sulla sua decisione e nel paese che aveva iniziato un dibattito sul boicottaggio del Mundial dei torturatori, seguendo la campagna Blood on the post lanciata dal comico Freek de Jonge e dal cantante Bram Vermeulen, molti si convinsero che il fuoriclasse del Barcellona avesse inteso protestare contro il feroce regime videliano. Altri, conoscendo il carattere per niente conciliante del “Pelé bianco”, pensarono che la defezione fosse da attribuire ai noti dissapori con l’altrettanto intransigente Happel, o magari a qualche infortunio invalidante o, più prosaicamente, al mancato accordo sui premi a vincere messi in palio dalla federazione arancione. Trent’anni più tardi, si sarebbe appreso che Cruijff aveva piuttosto cambiato la sua visione della vita. Dopo aver subito un tentativo di rapimento nella sua casa di Barcellona, aveva riordinato le sue priorità e perso le motivazioni per impegnarsi a fondo nel calcio.

All'Olympiastadion di Monaco di Baviera

All'Olympiastadion di Monaco di Baviera

Fra gli “orfani” di Cruijff, figuravo anch’io. Me ne ero innamorato, del favoloso attaccante con la maglia n. 14, ai Mondiali precedenti, quelli del 1974, quando solo un eccesso di confidenza e la fortissima Germania Ovest di Franz Beckenbauer privarono i “tulipani” del meritato titolo iridato. Ad appena sei anni, erano bastate le abbaglianti maglie arancioni, le lunghe basette di Rep, Neskeens e Van Hanegem, la sublime eleganza di Ruud Krol, prima ancora del rivoluzionario verbo tattico che passò alla storia come “calcio totale”, a farmi cadere in estasi. A stento trattenni le lacrime dopo la finale di Monaco e anzi celai quel dolore lancinante, uno dei primi che ricordo con tale nettezza. Raggiunsi gli amici in strada e festeggiai con loro, fingendo di aver tifato per i padroni di casa.

Il dispiacere per l'odierna scomparsa di un pezzo della mia infanzia è quasi niente rispetto alla sofferenza che mi causarono quella sconfitta e il mio successivo "tradimento".

Paolo Bruschi