L'omelia del cardinale Betori: "Sogno un umanesimo fiorentino"

I turisti a Firenze non facciano solo selfies

"Dobbiamo pensare che chi viene da fuori non esaurisca la sua presenza tra noi tra shopping e selfies, ma gli venga fornito l'alfabeto per poter leggere la nostra bellezza". Lo ha detto il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, nella sua omelia in occasione della messa per San Giovanni, patrono della città, riferito ai turisti che affollano la città. "Una bellezza - ha aggiunto Betori - che non è estetica del bello ma riflesso dell'amore, della carità che è l'anima vera della nostra città e quindi la sua indispensabile infrastruttura morale". Firenze ha bisogno di una "figura unitaria", ha rilevato il cardinale osservando come sia "pericolosamente tentata di scindersi in un duplice volto: la città dei turisti, da cui pur dipende parte considerevole della vita economica, e la città della gente, che rischia di sentirsi espropriata della propria patria, che fatica a sopportare i disagi della modernizzazione e i segni di deterioramento, in alcuni casi anche di imbarbarimento, così difficili da controllare".

"C’è qualcosa nella nascita del Battista che ha molto da dire sulla condizione umana, valido anche per noi oggi.

La nascita di Giovanni scaturisce da una situazione per sé senza futuro: Zaccaria ed Elisabetta «non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni» (Lc 1,7). Il progetto di Dio si colloca in una condizione umanamente negativa, una mancanza, un’assenza di Dio, si potrebbe dire; si riteneva infatti che la fecondità, i figli fossero manifestazione della benedizione divina. Ma Dio sceglie ciò che è negativo per esaltare il proprio potere, nella sua assolutezza in grado di sovvertire la logica e le possibilità umane. Proprio dove sembra che Dio sia assente, là si rivela come benedizione e misericordia.

Abbiamo bisogno di questa rivelazione per aprire il nostro cuore alla speranza, di fronte alle tante situazioni di povertà umana in cui si denuncia anche oggi l’assenza di Dio. Ne sono un segno le condizioni di povertà, di miseria che caratterizzano una società in cui crescono le diseguaglianze, in cui le ragioni del profitto calpestano le persone e la loro dignità. Abbiamo bisogno di capovolgere queste logiche per ridare vigore alle nostre radici umanistiche.

Voglio illustralo riferendo alla nostra città quanto Papa Francesco ha detto un mese fa all’Europa. Non saprei né potrei trovare parole migliori per dirlo.

Sogno un nuovo umanesimo fiorentino, un costante cammino di umanizzazione, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia. Sogno una Firenze giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno una Firenze che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno una Firenze che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno una Firenze, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un

maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno una Firenze dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno una Firenze delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno una Firenze che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno una Firenze di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia (cfr. PAPA FRANCESCO, Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016).

Si tratta con evidenza di sogni alti, ma va riconosciuto che su diversi di essi non dobbiamo partire da zero: non mancano tra noi valide esperienze, e le parole che ho preso in prestito dal Papa suonano come incoraggiamento a procedere oltre e a fare sempre meglio. Sono parole illuminanti e impegnative; ci toccano tutti, in ogni condizione di vita e di responsabilità: anziani e giovani, fanciulli e ragazzi, educatori e amministratori della cosa pubblica, Chiesa e società civile, famiglie e scuole, luoghi di aggregazione e carceri. Per tutti c’è un’esigenza di umanità da riconoscere e per la quale impegnarsi. Questo è il dono di Dio che attendiamo: menti e cuori nuovi, capaci di affermare le ragioni della persona umana contro ogni sua contraffazione e asservimento.

Possiamo chiederci: che cosa deve fare l’uomo, nel suo stato di precarietà, in un’esistenza in cui spesso sperimenta l’assenza di Dio, per lasciarsi incontrare dal suo dono? Più che uno sforzo religioso, gli è chiesto di mantenere sempre vivo il desiderio del proprio cuore. Zaccaria ha chiesto con insistenza ciò che più desiderava, e Dio è entrato nella sua vita, l’ha raggiunto proprio attraverso il suo desiderio. «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita», gli rivela l’angelo nel Tempio (Lc 1,13). Abbiamo bisogno di coltivare il desiderio, di nutrire il nostro desiderio di ragioni di speranza, reagendo a ogni chiusura negli schemi precostituiti del pensiero politicamente corretto e delle ideologie consumistiche che si nutrono di egoismi e divisioni. Di questo dobbiamo sentirci particolarmente responsabili noi, discepoli di Cristo. Chi crede in un Dio fatto uomo, morto e risorto, ha una dotazione di speranza da diffondere e testimoniare.

Come si vive questa testimonianza? Con lo spirito di Giovanni, colui che viene per «preparare al Signore un popolo ben disposto» (Lc 1,17), colui che andrà «innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati» (Lc 1,76-77). Giovanni ci insegna che non si vive per se stessi, ma con gli altri e per gli altri, nella relazione e nella responsabilità, come segno e richiamo della presenza di Dio nel mondo.

Di questa proiezione verso gli altri, del sentirsi realizzati non nella chiusura nei propri tornaconti ma nei legami con gli altri, abbiamo particolarmente bisogno oggi, in una società così frammentata da interessi contrapposti. È sulle relazioni che si fonda l’unità e anche la coesione di una città. E di una figura unitaria ha bisogno anche Firenze, pericolosamente tentata di scindersi in un duplice volto: la città dei turisti, da cui pur dipende parte considerevole della vita economica, e la città della gente, che rischia di sentirsi espropriata della propria patria, che fatica a sopportare i disagi della modernizzazione e i segni di deterioramento, in alcuni casi anche di imbarbarimento, così difficili da controllare.

Abbiamo bisogno di un balzo culturale, in cui i caratteri di fondo della nostra città siano ricondotti al cuore della gente comune, come pure siano proposti con forza a chi dall’incontro con Firenze deve poter trarre un messaggio di pienezza dell’umano. Vanno ricostruite le condizioni che permettano di vivere al tessuto minuto della società fiorentina, come pure dobbiamo pensare che chi viene da fuori non esaurisca la sua presenza tra noi tra shopping e selfies, ma gli venga fornito l’alfabeto per poter leggere la nostra bellezza. Una bellezza che non è estetica del bello ma riflesso dell’amore, della carità che è l’anima vera della nostra città e quindi la sua indispensabile infrastruttura morale.

A quest’anima, che fa sintesi di bellezza e carità e in questa sintesi riconosce la verità che la innalza, ci richiama Giovanni, il profeta di Cristo, che ne è la pienezza, e dall’intercessione del nostro protettore la invochiamo come un dono".

Durante l’omelia il card. Betori, parlando dell’importanza e del valore delle relazioni in una società, ha detto: “Mi ha riempito di gioia vedere ieri in Piazza San Pietro accanto al Papa un gruppo di giovani rifugiati che noi abbiamo accolto e che sono ospiti dell’Istituto Universitario Europeo. La loro accoglienza è sostenuta e organizzata dalla nostra Caritas diocesana, lo hanno detto loro stessi a Papa Francesco ed è stato un momento molto bello”.

Sempre a braccio, parlando dei segni di imbarbarimento di cui soffre a volte anche Firenze l’Arcivescovo ha detto: “Voglio esprimere la mia vicinanza al giovane animatore dell’oratorio dei Salesiani di via Gioberti, vittima nei giorni scorsi di un’aggressione a quanto sembra proprio per aver compiuto un gesto educativo”.

Cardinale Giuseppe Betori

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