G8 di Genova, a 15 anni di distanza la testimonianza di una manifestante

(foto archivio.gonews.it)
"Avevo tra i 17 e i 18 anni nel luglio 2001 ed era un imperativo categorico tenermi informata sulla situazione politica italiana ma anche mondiale, spinta dalla voglia di cambiare quell’inferno che quei diavoli di Bush e Berlusconi stavano alimentando".

Inizia così la testimonianza di Eva Giannoni, originaria di Santa Croce sull'Arno e adesso residente a San Vincenzo (Livorno), sul G8 di Genova del 2001. Il 19 luglio di 15 anni fa cominciava il summit internazionale che finì con 329 arresti, violenze alla Diaz e alla Bolzaneto e la morte di Carlo Giuliani. E poi i sette processi, circa un centinaio di imputati condannati tra cui i vertici della polizia nazionale e locale, oltre 300 udienze, 170 anni di reclusione comminati, otto pubblici ministeri impegnati, circa 120 avvocati per le difese e per le parti civili. Il danno patrimoniale e all'immagine dello Stato provocato dal comportamento della polizia stimato dalla Corte dei Conti in 12 milioni di euro.

Vi proponiamo il racconto di quei giorni: una testimonianza certamente politica, lunga e appassionata ma con l'animo di chi ha visto l'orrore da vicino senza fortunatamente rimanere coinvolta nelle violenze.
"Contribuivano i ragazzi della facoltà di Scienze Politiche, nell’edificio vicino alla mia scuola, a informarci con materiale cartaceo e comizi durante le occupazioni e le manifestazioni di che cosa accadeva in Palestina e negli Stati Uniti.
 
Neppure all’epoca mi identificavo completamente in un partito politico o mi ritenevo completamente una no global ma c’era tanta rabbia mossa da ormoni adolescenti e da un pensiero politico fortemente di sinistra che contrastava con i moti di globalizzazione inarrestabili. Mia madre di questo ne era al corrente e quando le esternai la volontà di andare a manifestare a Genova in occasione del G8 non contrastò. Molti genitori di miei coetanei a tale richiesta dettero un diniego categorico, molti di loro sostenevano comunque la manifestazione e il diritto di farlo ma vedevano folle andare proprio lì proprio a quella.
 
Lei cercò di mediare, anche lei sentiva questo forte dovere sociale, anche lei era assidua partecipare alle manifestazioni contro un sistema che avrebbe sepolto i diritti di chi già ne gode di pochi. Era sostenitrice di Rifondazione Comunista e mi propose di partire per la manifestazione, però con lei sul bus del partito. Mamma prima di apprendere questa mia volontà di partecipare alla manifestazione non aveva in mente di andarci, ma percepì un sentore di pericolo, ancora eravamo lontane da immaginare di quale entità. Poi tutto sommato l’iniziativa di andare insieme dopo tutto le piaceva.
 
Il pullman partiva il 21 luglio e nei giorni precedenti alla partenza il gruppo degli 8 era a Genova, la manifestazione iniziava e cercavamo di tenerci costantemente informate. Iniziarono a sfilare i primi cortei senza violenza, ma presto il mito dei tanto già discussi black bloc prese vita e insieme alle tute bianche dei no global in TV combattevano armati di scudi di plexiglass e protezioni fatte con materassini da joga contro la celere, i manifestanti determinati a violare la zona rossa alcuni con le maschere antigas, le macchine dei genovesi che bruciavano e tutta Italia ad assistere alla morte di Carlo Giuliani.
 
Per me questa esecuzione diventò allora il motivo principale per partire, per schierarsi, molti sulla lista del pullman di Rifondazione invece disdissero il viaggio e all’epoca non li compresi neppure un secondo. Anche mia mamma provò tanta rabbia per quel diritto di onnipotenza della polizia, pianse davanti alla TV per l’inaudita violenza e la vigliaccheria di chi impugna una mitraglietta e spara contro un ragazzo, si immedesimò nei familiari di Giuliani. Vedeva ancor più un dovere partire e tutto sommato si sentiva tutelata sapendo di farlo con una organizzazione. Mio padre semplicemente scuoteva la testa e ci accusava di essere pazze, decise di non unirsi alla missione ma senza troppo obiettare sulle nostre scelte. Si partì e il viaggio, nonostante non ci fossero miei coetanei su quel bus durò un soffio.
 
Prima di scendere iniziarono le raccomandazioni degli organizzatori, dicevano di non separarsi per nulla al mondo dal nostro gruppo, di non restare isolati che noi facevamo parte di un corteo pacifista e che separarsi da esso significava sottoporsi al rischio di essere picchiati e arrestati dalla polizia. Sopra quel bus non sembrava possibile sentirsi privati di camminare per le strade del centro di Genova liberamente… e se mi scappa la pipì non posso neppure nascondermi a farla in un vicolo? Scendemmo dal pullman in un parcheggio insieme ad altri gruppi di manifestanti pacifisti e presto vedemmo una Genova disabitata. Fremevo al pensiero di poterci finalmente essere, di essere presente in quel luogo per urlare ai potenti del mondo quanto fossero schifosi nel legittimare certe azioni. Entrare in Corso Buenos Aires significava finalmente entrare nel corteo pacifico di bandiere rosse, dell’Arci e della Cgil.
 
Non c’erano intorno a me gli anarchici e i manifestanti di tutta Europa ma una manifestazione come altre, di certo un corteo più grande, con il solito baccano e i soliti fischietti ma delimitato da una corda su entrambi i lati tenuta ben tesa da chi si era preso il compito di non farla oltrepassare. Avevamo visto già gli scheletri delle macchine bruciate ma fecero più impressione, tra le palme del viale i resti degli scudi di plexiglass e i tappetini/protezioni persi dai manifestanti nei giorni e nelle ore precedenti.
 
La rabbia non trovava sfogo ma cresceva, alcuni genovesi guardavano sfilare il corteo pacifico dai balconcini anche in silenzio, uno strano senso di ribellione investì me e Marco, un compagno di Rifondazione, e con un tacito accordo oltrepassammo il cordolo per portarci davanti al corteo. Io con i miei capelli tinti di fucsia, gli anfibi e gli abiti neri, lui sui 60 anni, la bandiera di partito in mano e altri vessilli addosso, ci strillarono e cercarono di impedirci questa azione ci intimarono di posare subito la bandiera se la nostra intenzione era quella di uscire dal cordolo.
 
Marco non obbedì e io non ricordo neppure se avvisai mia madre di questa scelta. Si avanzò quasi correndo tra le urla dei compagni di partito, non i conoscenti ma quelli più avanti che ci vedevano passare. Sul lato esterno del corso, quello che da verso il mare c’erano le ambulanze e i feriti di alcuni scontri poco precedenti al nostro arrivo che prima di essere soccorsi venivano ammanettati con le fascette. Tutti i feriti venivano ammanettati con le fascette, vidi anche un uomo anziano completamente inerme.
 
Anche avere una macchina fotografica non era più un diritto e la polizia, che era anche appostata a l’interno delle viuzze che si riversano sul corso, aveva il dovere di sequestrarla e di picchiare il proprietario. C’erano dei veri e propri linciaggi verso i civili. Ma a noi ci andò bene, non ci fermarono e non ci picchiarono e trovammo anche il modo di vestirci di tappeti da joga e di raccogliere un bastone. Per fare cosa poi? Arrivammo presto davanti a uno strano spettacolo: un gruppo di manifestanti violenti stavano prendendo a mazzate una banca, credo fossimo all’altezza di piazzale M. L. King alla fine di corso Italia, a un centinaio di metri da questa cinquantina di violenti un grosso schieramento di poliziotti in tenuta anti sommossa fermi.
 
Il corteo pacifista avanzava nella direzione di questa scena e noi stavamo li nel mezzo increduli per un tempo che non so descrivere, di certo i vandali duravano da un pezzo con le spranghe a inveire contro l’edificio e per un po’ i soldati non hanno ricevuto ordini, di certo era proibitivo riprendere la scena in alcun modo. Sopraggiunse il corteo pacifista e in un breve tempo la polizia si mosse verso di esso caricando, caricarono contro i violenti e contro i non violenti. Noi scappammo incontro al corteo che ovviamente indietreggiava. Dagli elicotteri lanciarono la prima mandata di lacrimogeni urticanti contro il corteo pacifista, non mi era mai successa una cosa simile e ovviamente mi colse impreparata, era impossibile respirare e aprire gli occhi, pensai a dove fosse mia mamma.
Avevo paura, gli occhi bruciavano come se ci fosse stato spruzzato l’acido ma presto dei ragazzi con un accento ligure mi aiutarono e mi versarono sulla faccia acqua gassata e limone, mi parse assurdo! Mi spiegarono invece che erano pronti a questo perché erano stati al precedente G8 di Napoli e negli zaini avevano piccole scorte di acqua gassata e limoni. Non mi separai mai da Marco e insieme a lui tornando indietro si ritrovarono i nostri compagni di viaggio e mia mamma. Tornando indietro su viale Italia un'altra carica della polizia avanzò contro il corteo che però si stava ritirando e che di certo non rappresentava più una minaccia per la zona rossa.
 
Ancora lacrimogeni e mia mamma che urlava dolente e impaurita, sicuramente per la circostanza fui presa dal coraggio e trovai il modo di versarle dell’acqua frizzante sul viso per alleviarle il dolore. Nonostante anch’io stessi nella solita brutta situazione riuscì a non spaventarmi come prima diminuendo i battiti e respirando meno possibile quella porcheria. Ci si rifugiò forse spinte dalla folla forse per cercare la tranquillità necessaria per ricomporci, nel cortile di quella che sembrava una scuolina chiusa per le vacanze, c’era una rete e poi il mare: era un vicolo cieco. Mia mamma fu nuovamente presa dal panico per la paura che la polizia entrasse e ci picchiasse senza darci via di fuga, la paura era concreta ma fortunatamente riuscimmo a uscire dal cortile riprendendo il cammino verso il pullman dal quale eravamo scesi.
 
C’era scompiglio, uno scenario di guerriglia e non era facile capire da dove passare perché non si poteva passare dappertutto, non era permesso passare dappertutto pena manganella te e arresto. Il nostro gruppo non era più compatto e le indicazioni dei più esperti erano sempre più dubbiose fino a che siamo arrivati davanti a una galleria con l’arcata di mattoni rossi a vista, dentro c’era una macchina che bruciava e dicevano che si doveva passare di li, fortunatamente il disaccordo era dei più e trovammo comunque una strada alternativa riuscendo infine a raggiungere l’autobus. Non ricordo nulla del viaggio di ritorno".

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