Paolo Rossi, l'uomo che fece piangere il Brasile. Intervista al campione del mondo di Spagna '82

Paolo Rossi nella finale mondiale 1982 a Madrid contro la Germania

 Tutti quelli che, come me, nell’estate del 1982 erano ragazzini innamorati del calcio hanno un debito di riconoscenza nei confronti degli azzurri che Enzo Bearzot guidò alla conquista di un insperato successo nei Campionati del Mondo di Spagna. Dopo l’incerto e deludente inizio di torneo, la cavalcata dell’Italia fu travolgente: Argentina, Brasile, Polonia e Germania Ovest caddero sotto i colpi degli azzurri, innescando un’esplosione di gioia irrefrenabile alla cui testa si pose il Presidente della Repubblica SandroPertini, che mise a tacere chi storceva il naso di fronte a tanta esultanza spensierata: «Che ci sia una sosta nelle preoccupazioni e nella tristezza. Dopo sei giorni di lavoro, viene pur la domenica!».

Paolo Rossi, o Pablito, com’era soprannominato, reduce da una squalifica di due anni per la vicenda del calcio-scomesse, fu il protagonista emblematico di quel trionfo: un brutto anatroccolo incapace anche delle giocate più elementari durante le prime partite, un cigno maestoso toccato dalla grazia nelle gare decisive. Comprensibile che a trent’anni di distanza, Rossi abbia sentito il desiderio di rievocare quei giorni memorabili, con “1982. Il mio mitico Mondiale” (Kowalski editore), un agile libretto che diffonde l’aria elettrizzante del Mundial spagnolo e in cui sono contenute le mille storie di tanti appassionati che ricordano estaticamente i “giorni più belli della loro vita”.

Rossi è oggi titolare di un’azienda agrituristica nel cuore della Val d’Ambra, dove ha ricreato un angolo di paradiso in cui il ritmo del tempo è scandito dalle traiettorie del sole e della luna e quello delle stagioni dal maturare dei frutti della campagna toscana. Il passato di campione di fama planetaria ogni tanto bussa alla sua porta e Pablito si concede volentieri, come ha fatto in questa occasione, rispondendo ad alcune domande che gli ho rivolto nell’anniversario del suo esordio in nazionale.

DOMANDA – Il 21 dicembre 1977 giocò la sua prima partita con la nazionale maggiore, cosa ricorda di quella gara?

RISPOSTA – Avevo da poco compiuto 21 anni quando arrivò la prima convocazione con la nazionale di Enzo Bearzot (Rossi è nato il 23 settembre 1956 – N.d.R.). L’esordio avvenne a Liegi contro il Belgio, vincemmo 1-0 con gol di Antognoni. Anche se si trattava di un incontro amichevole è stata senza dubbio una delle più forti emozioni che io abbia mai provato. Vestire per la prima volta la maglia azzurra è stata una grandissima soddisfazione. Ricordo che quando è partito l’inno di Mameli mi sono sentito investito da una serie di responsabilità, prima fra tutte quella di rappresentare l’Italia intera. Nelle mie 48 presenze in azzurro ho sempre sentito molto forte il senso di appartenenza al Paese, dando sempre il massimo di me stesso per rappresentarlo adeguatamente sia in campo che fuori.

D. – Sempre in tema di esordi, il prossimo 1° maggio ricorrono 40 anni dalla sua prima gara da professionista…

R. – Vero, ho esordito con la Juventus in Coppa italia a Cesena nel maggio ’74, non avevo ancora 18 anni: un’emozione incredibile, un ottimo esordio bagnato da una vittoria, che però non servì per il passaggio del turno. L’allenatore era Cestmir Vycpalek, in quella gara furono schierati anche Dino Zoff, Claudio Gentile e Franco Causio, con cui poi mi sarei laureato campione del mondo.

D. – In quell’incontro di 40 anni fa fu schierato ala destra, quando avvenne la sua trasformazione in centravanti?

R. – La Juventus mi cedette in prestito al Como e poi in comproprietà al Lanerossi Vicenza, dove fu l’allenatore Giovan Battista Fabbri a spostarmi nel ruolo di centravanti: diventai così capocannoniere della serie B con 21 reti e conquistammo la promozione in A. Sono però sempre stato un centravanti atipico rispetto al prototipo dell’attaccante muscolare e potente. Forse sono stato il primo centrattacco rapido e svelto, che aveva nelle intuizioni la sua dote principale, unita a una tecnica sopraffina. Uno dei segreti del mio successo è stato quello di giocare intelligentemente, pensando sempre cosa fare un secondo prima che mi arrivasse il pallone, proprio per supplire alla mancanza di qualità fisiche eccelse. Giocare sull’anticipo era una mia grande prerogativa, cercavo sempre di rubare il tempo al mio avversario, sfruttando le mie doti di opportunista: in area di rigore cercavo sempre di sfruttare ogni piccolo errore dei difensori, facendomi trovare nel posto giusto al momento giusto.

D. – Nonostante il titolo di capocannoniere in serie B, la Juventus preferì acquistare Pietro Paolo Virdis, che di gol in quel campionato ne aveva segnati 18: forse la sua carriera sarebbe stata diversa se i bianconeri l’avessero subito riscattata dal Vicenza?

R. – Non ho mai pensato a una carriera diversa da quella che ho fatto. Non c’è stato un solo momento in cui non sia rimasto soddisfatto di tutte le società in cui ho giocato. Probabilmente, all’inizio la Juventus voveva verificare il mio valore e quindi mi spedì in provincia a farmi le ossa, come si diceva una volta. Poi, dopo la mia affermazione, ha cercato di riprendermi, ma il presidente dei vicentini Giussy Farina non volle lasciarmi andare. Le due società non trovarono l’accordo e fu stabilito di risolvere la comproprietà alle buste: alla vigilia della partenza per i Mondiali di Argentina del 1978, Farina inserì nella busta la fantastica cifra di 2 miliardi e 625 milioni per la metà del mio cartellino e mi strappò alla Juventus. Se fossi tornato alla casa madre già allora la mia carriera forse avrebbe preso una piega diversa ma la vita non è fatta di ma e di se. Non rimpiango assolutamente niente della mia carriera e delle mie decisioni.

D. – La notizia dell’esito dell’asta fra Vicenza e Juventus fu data da Nando Martellini mentre commentava la scialba prestazione dell’Italia nell’incontro di preparazione ai Mondiali argentini contro la Jugoslavia, mentre il pubblico dell’Olimpico di Roma chiedeva a gran voce il suo ingresso in campo. Bearzot non ascoltò i tifosi romani, ma all’esordio mondiale contro la Francia la lanciò fra i titolari insieme ad Antonio Cabrini e la squadra cambiò pelle.

R. – Il campionato del mondo del 1978 mise in luce una nazionale italiana all’altezza delle più grandi squadre mondiali e solo per inesperienza e poca convinzione non riuscimmo a vincere il titolo iridato. Il gioco espresso dall’Italia fu giudicato il migliore dalla critica e dalla stampa di tutto il mondo: io penso che nel ‘78 abbiamo posto le basi del grande successo di quattro anni dopo.

D. – È superfluo rammentare ancora la sua esplosione nel memorabile incontro contro il Brasile quel 5 luglio 1982, ci dica però se ne ha mai parlato con i brasiliani che vennero poi a giocare in Italia.

R. – Nel corso degli anni ho ritrovato più volte Falcao e Zico, ma loro non hanno mai più accennato alla sconfitta del Sarrià (la gara si giocò allo stadio Sarrià di Barcellona – N.d.R.). Credo che quella partita rimarrà per loro una ferita sempre aperta e qualsiasi parola o gesto consolatorio sarebbe assolutamente  insufficiente.

D. – È appena uscito uno spot di una carta di credito che la vede protagonista nel ruolo del ricorrente incubo dei tifosi brasiliani: le è mai successo nel corso degli anni di aver subito gesti di ostilità da parte degli appassionati carioca?

R. – Nel 1989, quando avevo oramai terminato la mia carriera, mi trovavo in Brasile, a San Paolo, per disputare un torneo di nazionali giocato da ex calciatori e una sera salendo su un taxi per rientrare in hotel il tassista brasiliano riconoscendomi dallo specchietto mi ha fatto scendere dall’auto. Qualche giorno dopo abbiamo giocato contro il Brasile e ogni volta che andavo a battere un corner mi lanciavano dagli spalti ogni tipo di oggetto, banane, accendini, monete. Questi, a dir la verità, sono stati gli unici episodi sgradevoli, generalmente invece ogni volta che sono venuto a contatto con i tifosi brasiliani ho sempre riscontrato un misto fra rabbia e ammirazione. Lo spot in questione è stato girato proprio a San Paolo lo scorso giugno e mi ha dato modo di capire quanto siano sportivi i brasiliani e quanta stima nutrano nei miei confronti.

D. – Da calciatore ha raggiunto i massimi traguardi che un professionista possa sperare, pur in mezzo a cadute e periodi di crisi: ha mai provato invidia per qualche suo collega?

R. – L’invidia è un sentimento che non ho mai provato nei confronti di nessuno. Semmai ho ammirato tanti calciatori e ho sempre fatto di tutto per ripercorrere le loro gesta. Pelè è sempre stato il mio idolo, il gol in finale all’Azteca nella finale contro l’Italia è stato un capolavoro di tempismo e fisicità. Kurt Hamrin invece è stato il calciatore che più mi divertiva, un’ala che si avvicinava al mio modo di giocare. Invece, fra i calciatori italiani avevo una particolare predilezione per Gigi Riva e Gianni Rivera.

D. – Andre Agassi ha scritto nella sua autobiografia che il dolore della sconfitta dura più a lungo della gioia della vittoria: nel suo caso, ha gioito di più per il Mondiale del 1982 o ha sofferto di più per la sconfitta che l’Amburgo inflisse alla Juventus nella finale di Coppa Campioni del 1983?

R. – La sconfitta nella finale di Atene è stata imprevista e dolorosa ma il giorno dopo eravamo già pronti per dimostrare che un passaggio a vuoto può capitare a chiunque: nei due anni successivi e sempre con la stessa squadra abbiamo dominato in Europa vincendo Coppa delle Coppe e Coppa dei Campioni. La vittoria del campionato del mondo di Spagna ’82 è stata invece esaltante, straordinaria e limpida. La sensazione che ho provato però mescolava al tempo stesso gioia e dolore. La gioia di una vittoria assolutamente ineccepibile, il mondo tra le mie mani, le bandiere dell’Italia che sventolavano ovunque, ma anche il pensiero che non avrei mai più vissuto attimi di gioia incontenibile come quelli. Avrei voluto fermare il tempo! Una vita intera per prepararti a vincere la competizione più importante del mondo e in un momento tutto era già passato. Le sconfitte sono bocconi amari che mal si digeriscono ma è anche vero che dalle sconfitte si trae nuova linfa per ripartire più forti e più motivati di prima. Perdere significa accettare un verdetto, fa parte della vita, vittorie e sconfitte sono spesso separate da differenze minime. C’è sempre un pizzico di rammarico quando non si ottengono i risultati sperati, ma la forza di uno sportivo deve essere appunto quella di far tesoro degli errori per migliorare le prestazioni future.

D. – Si è spiegato quell’inopinata sconfitta contro l’Amburgo?

R. – Quell’anno la Juventus arrivava da un cammino vincente in Europa ed era la squadra favorita, con 6 campioni del mondo più Platini e Boniek. Forse siamo giunti alla finale di Atene un po’ scarichi, sembrava dovessimo fare una passeggiata, l’Amburgo ci pareva una squadra-materasso, insomma, una formalità da espletare e niente più. Abbiamo preso sottogamba l’impegno e l’abbiamo pagata a caro prezzo. Quella partita è come se non l’avessimo mai giocata. La sensazione era di stare fuori dalla gara, come se assistessimo a una partita che non ci riguardava. Una riprova che nel calcio non c’è mai niente di scontato.

D. – In quella Juventus, benché non schierato ad Atene, c’era anche Cesare Prandelli: le pareva allora che avesse la stoffa dell’allenatore?

R. – Prandelli è stato un compagno di squadra esemplare. Siamo stati 4 anni insieme alla Juventus e lui è sempre stato un punto di riferimento per Trapattoni. È stato un calciatore buono per tutte le stagioni, veniva utilizzato per sostituire chiunque e nei ruoli più disparati. Poteva ricoprire tranquillamente ruoli difensivi e di centrocampo con risultati soddisfacenti. Non avrei mai pensato che potesse diventare un allenatore di grido, anche se le sue qualità umane e la passione per il calcio facevano già presagire un futuro da tecnico.

D. – Ritiene che Prandelli abbia qualcosa di Bearzot?

R. – Come Bearzot, Prandelli è sicuramente rigoroso e puntiglioso e soprattutto ha l’aria del buon padre di famiglia. L’aspetto psicologico può giocare un ruolo fondamentale e per alcuni nostri giocatori in crescita potrà risultare una guida insostituibile. Ogni allenatore è figlio della propria epoca e Prandelli, così come avevano fatto i suoi predecessori, Bearzot e Lippi, ha dimostrato in tutti questi anni di essere all’avanguardia sui temi tattici. I Campionati Europei del 2012 e la Confederation Cup della scorsa estate ci hanno detto quanto l’Italia e Prandelli siano da considerare moderni e aggiornati sotto l’aspetto tattico e del buon gioco.

D. – Come in Argentina nel 1978, anche ai prossimi Mondiali l’Italia è inserita in un girone molto duro: pensa che gli azzurri possano ben figurare in Brasile? Dopo tutto, un Rossi capocannoniere della seria A nell’anno dei Mondiali è di buon auspicio!

R. – Penso che la nazionale italiana sia ancora oggi fra le 5/6 squadre più forti al mondo. Abbiamo la possibilità di disputare un buon mondiale, possiamo arrivare fino in semifinale ma poi dovremo fare i conti con Brasile, Argentina e Germania che, a mio avviso, ci sono attualmente superiori: non sarà facile portare via la Coppa del Mondo al Brasile, paese ospitante e logico favorito. Giuseppe Rossi potrebbe rappresentare la sorpresa del prossimo mondiale, mi rivedo un po’ in lui, è quello che mi piace di più, per le doti tecniche e morali: da Pablito Rossi a Pepito Rossi, ci speriamo tutti!

Paolo Bruschi

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