Come Mats Wilander divenne il n. 1

Trent'anni fa, il regolarista svedese divenne il primo tennista del mondo dopo la vittoria agli Us Open contro Ivan Lendl


Gli Us Open di tennis giungono al culmine della parte forse più sfiancante dell’intero circuito ATP. Collocati fra la fine di agosto e l’inizio di settembre, concludono l’abbondante mese sul cemento che erra per le roventi città americane, costringendo i tennisti a esplorare gli estremi limiti della loro resistenza psico-fisica – proprio l’ultima edizione di Flushing Meadow, conclusasi domenica con la vittoria di Novak Djokovic al termine di due settimane funestate da temperature sahariane e umidità tropicale, ha indotto gli organizzatori a varare regole speciali per alleviare le sofferenze di giocatori e giocatrici.

Le conseguenze su Djokovic del caldo afoso all'ultimo Flushing Meadow

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Proprio trent’anni fa, tuttavia, quella specie di test di resistenza che è da sempre il major newyorkese fu l’inatteso teatro dell’ascesa di Mats Wilander al vertice del ranking mondiale, ascesa che cancellò tutti i dubbi che esperti e opinionisti nutrivano sul suo coraggio e sulla sua determinazione, e che eclissò addirittura la memoria del suo illustrissimo connazionale Bjorn Borg.

Il prodigioso “orso svedese”, che a fine carriera vantava ben sei corone del Roland Garros e cinque di Wimbledon, aveva ostinatamente tentato di annettersi lo slam di New York, ma per ben 10 volte era stato respinto, di cui quattro in finale. Wilander era giunto nella “Grande Mela” nel 1988 con un analogo sconfortante record, del tutto coerente rispetto al suo ruolo di erede naturale di Borg. L’11 settembre di quell’anno, invece, pose fine al perdurante dominio di Ivan Lendl, il coriaceo cecoslovacco n. 1 del mondo, il quale aveva un rapporto del tutto privilegiato con il torneo americano, essendone campione in carica da tre anni e comunque protagonista dell'atto conclusivo da sei anni consecutivi – dal 1982 al 1984, aveva perso le finali contro Jimmy Connors (due volte) e John McEnroe.

Wilander prevalse dopo un'estenuante maratona di 4 ore e 54 minuti per 6-4, 4-6, 6-3, 5-7, 6-4, che divenne la finale più lunga mai disputata sul cemento di Flushing Meadow (nel 2012, il record sarebbe stato eguagliato, ma non superato, da Andy Murray e Djokovic), sette minuti di più di quella che gli stessi giocatori avevano giocato l'anno precedente, terminata però con la vittoria del boemo dopo soli quattro set. Fu un match contraddistinto da un'appassionante altalena di emozioni, quelle stesse di cui i due glaciali protagonisti erano sempre stati accusati di essere avari e che invece alimentarono in una profusione di pugni levati al cielo, urla di giubilo e danze di gioia.

Ancora più sorprendentemente, non fu soltanto il solito e noioso test di resistenza da fondocampo fra due regolaristi riluttanti a scendere a rete, e principalmente per merito di Wilander, il quale si era accorto di dover cambiare il suo gioco, se voleva avere una speranza di violare il tetraedico edificio tennistico del solidissimo Lendl. Negli ultimi sette confronti diretti, lo svedese non aveva avuto scampo contro l'affidabilità e la potenza dei colpi di rimbalzo del n. 1, che estraeva pure un numero consistente di punti da un servizio sempre più preciso e penetrante.

Wilander era ormai stabilmente fra i top four della classifica mondiale dal 1982, quando aveva vinto da adolescente il suo primo Open di Francia, e a 24 anni si sentì pronto per portare il suo attacco alla vetta. Prima dell'ultimo slam stagionale, aveva già vinto in Australia e ancora a Parigi, così che l'esito della finale non avrebbe solo assegnato il torneo di New York, ma anche la palma di miglior tennista del pianeta, visto che Lendl era al contrario alla fine di un'annata deludente, in cui era stato oltretutto afflitto da molti e fastidiosi infortuni.

Come largamente immaginato, l'incontro cominciò con scambi dalla linea di fondo di 30/40 colpi, che prostrarono il pubblico non meno dei giocatori. Nonostante tre ace avessero issato Lendl sul 40-15, lo svedese operò il break decisivo al decimo gioco e si aggiudicò il primo set dopo 61 minuti. Nel secondo, sprintò sul 4-1, portandosi a rete con inusuale frequenza. Confortevolmente in vantaggio, fu destabilizzato da un'ammonizione comminatagli dal giudice di sedia per aver ritardato un servizio. Persa l'usuale concentrazione, cedette cinque giochi di fila e la seconda partita. I successivi set ricalcarono lo stesso andamento e il match sbarcò al quinto, una circostanza cui non si assisteva dalla finale McEnroe-Borg del 1980.

Mentre molti spettatori se ne andarono, vinti dalla noia degli scambi prolungati, il livello di gioco si impennò e l'ultimo set ripagò le attese degli appassionati più pazienti. Wilander poggiò sulla sua ben nota saldezza mentale e accentuò la già insolita tattica aggressiva, preferendo rischiare di venire infilzato a rete piuttosto che perdere da fondocampo, come gli era capitato l'anno precedente. La coraggiosa variazione di stile – preparata negli anni dall'ostinazione con cui aveva continuato a giocare in doppio con Joakim Nyström - mandò in confusione il cecoslovacco, i cui passanti scemarono di efficacia, consentendo comode volée, o finendo in rete o fuori dal rettangolo di gioco.

Nel set conclusivo, Wilander fu il primo a conquistare il break, restituendolo però prontamente. Fu il fatidico settimo giocò a instradare le sorti dell'incontro, le cui vicende altalenanti avevano finalmente conquistato la folla ancora presente. Sul 5-4 in proprio favore, Mats attaccò la rete tanto spesso quanto avrebbe fatto McEnroe nella stessa situazione, seguendo la prima di servizio o fiondandosi in avanti sulle ormai tremebonde risposte di Lendl. Salì 30-15 e la moglie Sonya Mulholland lo incitò dalle tribune (“Ancora due punti, tesoro!”), ma la tensione non le permise di emettere più di un flebile mormorio, che ovviamente non giunse alle orecchie dell'amato, il quale dovette infatti annullare due break-point e non fu capace di convertire il primo match-point.

Con l'eccitazione ormai alle stelle, Wilander non cessò di proiettarsi in avanti e Lendl non poté arginarlo. Alla seconda palla del torneo, il non più tanto algido scandinavo servì una traiettoria arcuata a uscire e si preparò a volleare, ma il rovescio dell'ormai ex leader della classifica ATP affondò in rete, consegnando trofeo e trono mondiale all'impavido sfidante.

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Risultò alla fine che Wilander si era avventurato a rete 131 volte, con una percentuale di riuscita del 58%, mentre il meno temerario Lendl vi si era affacciato solo in 77 occasioni, accumulando in più 83 errori gratuiti contro i soli 36 del rivale – tanto per fare un confronto, due giorni fa, Djokovic e Juan Martin Del Potro hanno messo insieme congiuntamente un totale di 54 discese a rete, benché in soli tre set.

L’aria sottile del vertice non giovò allo scandinavo, che la respirò per sole 20 settimane, lasciando poi il posto al redivivo Lendl, che l’avrebbe occupato fino all’estate del 1990. Invece, nel settembre 1989, Wilander era già sceso in 12esima posizione e 12 mesi dopo precipitò fino al n. 67. Non si sarebbe più ripreso, uscendo rapidamente dai primi cento giocatori al mondo.

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Semplicemente, il tennis non meritava più la sua completa dedizione. Alla riconsiderazione delle priorità esistenziali non fu forse estranea una fortunata fatalità. Alla fine del 1988, Wilander prenotò il volo Pan Am 103 da Londra per New York, dove avrebbe dovuto sottoporsi a un trattamento medico che in ultimo decise di rifiutare: per un attentato terroristico, l’aereo sul quale il campione svedese non salì, esplose in volo il 21 dicembre, piombando sulla cittadina di Lockerbie e uccidendo 269 persone a bordo e 11 a terra.

Paolo Bruschi