Dick Fosbury, un "nerd" fra i sessantottini

Negli anni dell'attacco al cielo di un'intera generazione di giovani, il 20 ottobre 1968 il saltatore in alto americano portò la rivoluzione alle Olimpiadi


fosAlla fine degli anni ‘60, l’unico limite per milioni di giovani era il cielo. Circolavano slogan che invitavano a essere realisti e a chiedere l’impossibile. Nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche, nella società, quelli che avevano più di trent’anni erano nemici. Sui giradischi i vinili urlavano la volontà di prendersi il mondo “ora e subito”. La rivoluzione pareva una prospettiva realizzabile e a portata di mano per una gioventù iconoclasta, battagliera e sognatrice.

L’onda della rivolta e del rinnovamento invase anche gli stadi, le arene, le piste di atletica, i palazzetti dello sport. Erano in corso la guerra del Vietnam, il movimento per i diritti civili degli afro-americani, il conflitto arabo-israeliano, la “primavera di Praga”, le lotte sindacali, la rivoluzione culturale cinese, e non mancavano pertanto le occasioni per gli idoli dello sport di far sentire la propria voce. Nel 1968, l’anno per antonomasia della contestazione giovanile e l’anno delle Olimpiadi di Città del Messico, molti atleti presero posizione: l’imminente stella del basket NBA Kareem Abdul-Jabbar boicottò la rassegna a cinque cerchi, i duecentisti Tommie Smith e John Carlos alzarono i pugni guantati di nero sul podio dei 200 metri in omaggio al “Black power”, la ginnasta Věra Čáslavská elevò una muta protesta contro i carri armati sovietici che avevano sparso il sangue nelle strade della capitale cecoslovacca, il peso massimo George Foreman sventolò la bandiera americana sul ring. Tutti non esitarono a lacerare il velo ipocrita della presunta neutralità politica dello sport.

In mezzo a loro, nello stesso villaggio olimpico frequentato da motivati agitatori, c’era anche un mite studente di ingegneria, che non aveva l’aria del sovversivo e non minacciava di rovesciare l’ordine costituito. Richard Douglas “Dick” Fosbury, saltatore in alto americano, non aveva il “physique du rôle” del rivoluzionario. Smilzo e slanciato, biondo e slavato, con il viso butterato e un sorriso timido, si sarebbe piuttosto definito, con molto senno di poi, un antesignano dei nerd che un decennio dopo avrebbero guidato il pianeta verso l’era digitale armeggiando con rudimentali apparecchi elettronici dentro garage bui e polverosi. Invece, nella sua specialità avrebbe introdotto un'innovazione in grado di resistere all'usura del tempo molto di più delle incendiarie parole d'ordine dei suoi politicizzati coetanei.

Nato a Portland il 6 marzo 1947, Fosbury era uno dei figli del baby-boom e come tutti i suoi pari età trascorse l'infanzia nel pieno degli ottimistici anni '50, quando il Pil americano era superiore a quello di tutti gli Stati europei messi insieme e la produttività tre volte maggiore della media del Vecchio Continente. Molti di questi soldi finanziavano un sistema educativo in enorme espansione, nel quale una parte importante era attribuita allo sport cui erano instradati tutti gli studenti fin dai primissimi gradi di istruzione. Il piccolo Dick, già un lungagnone fin da quando indossava i calzoni corti, optò per il salto in alto, che praticava con l'antiquata tecnica a forbice, cui restò fedele fino alla scuola superiore. A 16 anni, il suo nuovo allenatore lo persuase a passare al ventrale, ma i risultati restarono pessimi.

La rumena Iolanda Balaș dominò l'alto femminile dal 1958 al 1971, usando la tecnica a forbice.

La rumena Iolanda Balaș dominò l'alto femminile dal 1958 al 1971, usando la tecnica a forbice.

Nell'alto non esisteva, e non esiste ancora oggi, una norma che prescriva una modalità obbligatoria di superamento dell'ostacolo. Perché il balzo sia valido, è sufficiente passare oltre la sbarra. Nella speranza di smettere di perdere, Fosbury cominciò a sperimentare e per prima cosa tentò di sollevare le anche, il che lo indusse a volgere le spalle all'asticella e a valicarla all'indietro. Quel giorno progredì clamorosamente di quindici centimetri e dalla mattina alla sera divenne un atleta di livello. Era nato il “Fosbury flop”.

Con notevole senso di auto-ironia, il biondino dell'Oregon battezzò il nuovo stile giocando sull'ambiguità del significato, poiché in inglese il termine vuol dire sia “cadere di peso” che “fallimento”. Che il suo modo di saltare all'indietro si sarebbe rivelato un fiasco, i supposti esperti non tardarono a sentenziarlo: il responsabile della squadra olimpica statunitense, Pat Jordan, arrivò addirittura a preconizzare l'ecatombe di un'intera generazione di saltatori, qualora si fossero convertiti al “Fosbury flop”, condannandosi così alla frattura dell'osso del collo.

L'ucraino Vladimir Jaščenko fu l'ultimo ventralista a detenere il record mondiale fra gli uomini

L'ucraino Vladimir Jaščenko fu l'ultimo ventralista a detenere il record mondiale fra gli uomini

In realtà, lo stile dorsale – come fu anche chiamato – offriva un innegabile vantaggio fisico. L'accelerata rincorsa curvilinea, lo stacco effettuato con il piede esterno, le spalle rivolte all'ostacolo, l'inarcarsi della schiena in elevazione e infine lo scalciare dei piedi in avanti, conferivano maggiore dinamicità al volo e mantenevano sotto la barra il centro di massa del saltatore, con un netto guadagno di efficienza nel rapporto fra energia sprigionata e altezza superata. Cadere sulla schiena poteva essere un problema, ma proprio durante il suo anno da matricola, la scuola introdusse i materassi in sostituzione dei trucioli di legno nell'area di atterraggio.

Come studente di fisica e matematica, Fosbury continuò ad affinare la sua tecnica. Fu cruciale comprendere che all'alzarsi del limite da sormontare occorreva allo stesso tempo arretrare la “mattonella di decollo”, il che era un ribaltamento totale di quanto applicato fino ad allora: i ventralisti infatti erano soliti staccare sempre dallo stesso punto ed occorreva un bel po' di auto-disciplina per convincersi che allontanarsi dalla sbarra incrementava la durata della fase aerea e quindi l'altezza dell'arco disegnato dal corpo del saltatore. Fra gli osservatori dovevano essere in pochi quelli con meno di trent’anni e ancora più sporadici quelli capaci di pensare con la “mente laterale”, visto che quasi nessuno lodò il giovane innovatore. Anzi, un giornale della sua città lo definì addirittura “il saltatore più pigro della storia”, stigmatizzando l'aria svagata con cui pareva lasciarsi cascare oltre l'asticella, proprio come un giovanotto svogliato si immaginava che facesse sul letto di casa.

In effetti, Dick raggiunse i suoi stupefacenti risultati senza allenarsi troppo e senza metter su muscoli sospetti. Più che altro si persuase che una convenzione non è una regola sempre valida e procedette di conseguenza a scardinare quietamente il canonico modo di vedere le cose.

Non avendo mai gareggiato fuori dagli Stati Uniti, quando arrivò alle Olimpiadi era ancora largamente sconosciuto. Per giunta, saltò anche la cerimonia inaugurale per visitare i templi aztechi e non alloggiava al villaggio olimpico, preferendo dormire in un van. Fosbury sarebbe già stato soddisfatto di entrare in finale, ma una volta giuntovi non mollò la presa fino a che non schiantò ogni resistenza. Il 20 ottobre 1968, all'avvio della competizione, tutti gli sguardi conversero sulle prove dell'ineffabile outsider che non mancò un salto fino a 2.24 metri, limite che superò infine al terzo tentativo aggiudicandosi l'oro e il record olimpico – il successivo attacco al primato mondiale di Valerij Brumel', fissato a 2,28 metri, non ebbe esito.

Nel 1980, anche l'oro moscovita di Sara Simeoni fu dovuto allo stile dorsale

Nel 1980, anche l'oro moscovita di Sara Simeoni fu dovuto allo stile dorsale

Dopo le Olimpiadi messicane, Fosbury tornò all'università e diventò il primo membro della sua famiglia a laurearsi. Per i Giochi del 1972, aveva ormai perso il sacro fuoco agonistico e la sua carriera giunse a termine, ma non il suo retaggio. A Monaco di Baviera, infatti, dei 40 partecipanti alla gara di salto in alto, ben 28 avevano abbracciato il “Fosbury flop” e dal 1980 più nessun saltatore, uomo o donna, si fregiò dell'oro olimpico con una tecnica diversa.

Paolo Bruschi