Ponte a Egola, come nacque l'attività conciaria nel paese

Ponte a Egola, ovvero il ponte di Egola, esistente su quella che si chiamò la via Quintia dal nome del console T. Quintus Flaminius negli anni dal 155 al 123 a.C. che collegava Pisa a Fiesole costeggiando il corso dell’Arno. E l’opera divenne tanto importante ché nella seconda metà del XIV° secolo, nel 1377, il vicario di San Miniato per mantenere quei legni e pietre, impose che si pagassero tasse da parte dei comuni di Fucecchio, Santa Croce, Castelfranco, Santa Maria a Monte, Montopoli, Montaione, Montebicchieri e Stibbio, fino a San Quintino.

Si dovrà attendere molti secoli perché si formasse un borgo, sulle direttrici della via Fiorentina-pisana-livornese e, Maremmana, all’altezza di Tognarino. Paese che poi si delineò, unendo tre agglomerati: le Fornaci esistenti dalla metà del Settecento; Tognarino dal nome di Antonio Giusti nel 1826, e della località del Ponte vissuta dalla colonizzazione romana.

Si parlerà di villaggio solo nel 1811, in pieno dominio napoleonico, quando l’allora provveditore di strade, parlando della manutenzione della via di Giuncheto dirà che essa “passa dal Villaggio d’Egola”.

Villaggio che già nel biennio 1826-1828, molto prima della costituzione della Parrocchia (che avverrà il 25 gennaio 1879), raggiungeva i 758 abitanti e 113 nuclei familiari. Pare che la crescita del Ponte a Egola e le prime conce in fossa non si distanziassero di troppo.

I Dani (Pasquale, Averardo e Attilio) che erano stati barrocciai e poi mercanti di buccia per le conce, cioè di scorze di sugheri e querce, e poi proprietari terrieri, cominciarono a ficcare le pelli in qualche tino o fossa, in un bugigattolo adiacente al Vicolo del Fuoco sopra Le Fornaci dei Marianelli.

L’Andreina, figlia di Averardo Dani, raccontava di memorie che tramandavano frequenti rapporti con Livorno dove i Dani avrebbero imparato le nozioni di quell’arte, mercuriale e saturnina. Da noi al Ponte a Egola, a differenza che in Santa Croce, sarebbero stati i barrocciai e non i navicellai a trasmettere i segreti della concia. Tutto opinabile. Chi sa che non scappi fuori un documento, una lettera o altro, che dica invece che il modo di conciare le pelli fosse stato appreso da Empoli o da Firenze o dalla Francia, dove già esistevano concerie.

Detto per inciso, in quel periodo l’industria, in senso ottocentesco, non era ancora indicata con una propria terminologia. Gli “imprenditori” erano chiamati negozianti o trafficanti o proprietari. Da noi sarà con Giovanni Billeri di Antonio di anni 48, come ci viene riportato da uno Stato di anime del popolo di Stibbio, che nel 1879 si registrò la figura di un “conciaio in proprio”, oggi si direbbe artigiano conciario.

Così pelli e paese cominciarono a stare abbracciati prima in poche occasioni, quasi furtivamente, poi sempre più avvinti dalla necessità della vita e dall’avarizia dei campi. Si trattò infatti, in quella seconda metà Ottocento e poco oltre, di primi esperimenti: un’attività stagionale, complementare ad altre attività commerciali e agricole, ma tuttavia significativa in quanto già una dozzina di “conciaioli”, cominciarono a trarre da quell’arte i mezzi di sostentamento anche se l’economia del Ponte a Egola si fondava in prevalenza sull’agricoltura e sui traffici dei barrocciai che partivano per le maremme quando i commerci locali ristagnavano.

Nell’ultimo trentennio del XIX secolo, fra il paese e la concia si creò, un’ alleanza sempre più stretta, da uscio di casa e bottega. Per molti si dormiva al suono del bottale, ci si svegliava con l’odore acuto del tannino, si conciava la pelle degli uomini insieme a quella delle bestie. Condizioni di lavoro durissime ma non ancora conflittuali con l’ambiente, anzi si stabiliva una simbiosi e un reciproco vantaggio fra l’attività agricola e quella conciaria per cui se dal mondo agricolo venivano le pelli fresche degli animali macellati, i carnicci ed altri residui tornavano alla terra come concimi.

Si posero allora le caratteristiche strutturali dell’azienda conciaria di Ponte a Egola: la dimensione artigianale-familiare e lo spirito d’impresa, che in seguito saranno fattori determinanti di uno sviluppo straordinario capace di adattarsi ad innumerevoli variabili. Per definire un quadro sintetico dell’ultimo ventennio di fine secolo, diremo soltanto che il villaggio contava una popolazione di 1.145 individui, era sede di una sezione elettorale che comprendeva Romaiano, San Romano e Stibbio, per un totale di circa 200 elettori. Il paese si presentava un centro discretamente florido, in rapporto alla generale miseria delle campagne, se si pensa che, dopo la raccolta di firme per la costruzione della Chiesa al Ponte a Evola, ben 152 famiglie contribuirono finanziariamente alla costruzione dell’edificio che fu consacrato al Sacro Cuore nel 1875.

Nell’ultimo quarto di secolo, alla conceria di Giovanni Billeri sopra nominata, si aggiunsero altre concerie. In un breve volgere di anni, i Dani, Rossi, Billeri, Marianelli, Matteucci ed altri, furono i protagonisti, con le maestranze e un nascente ceto operaio, di quella avventura che già agli inizi del novecento, con la prima illuminazione elettrica di Enrico Valori, farà nascere una decina di concerie e sfamare qualche centinaio di bocche.

Valerio Vallini

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