Natale, l'omelia del vescovo Betori: "Chiediamoci perché prevale l'istinto a negare ospitalità"

Giuseppe Betori

La lettera agli Ebrei ci ha ricordato che il Figlio di Dio, la Sapienza che è all’origine dell’ordine del mondo, il Signore dell’universo che è la meta del volgere dei giorni, colui che nella sua unità consostanziale al Padre ne è l’immagine perfetta, lui in cui ci è dato di contemplare il volto dell’Eterno, è ora qui, presso di noi, uno di noi, nel mistero di una nascita umana che congiunge per sempre Dio e l’umanità.

Afferma l’evangelista Giovanni: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14). Un fatto inaudito è avvenuto nel villaggio di Betlemme, ai margini non solo geografici dell’impero romano, duemila anni fa: Dio si è fatto uomo. La parola di Dio, il suo pensiero, la sua sapienza, Dio stesso cioè, è entrato in quel mondo che per mezzo di lui era stato creato ed è diventato una creatura come tutti noi: un bambino indifeso, quale lo abbiamo contemplato nella notte ascoltando il racconto del vangelo di Luca; una «carne», ci dice oggi Giovanni, vale a dire un essere umano nella fragilità propria delle creature.

Che Dio si sia fatto uno di noi è parola di consolazione, annuncio di una buona notizia, che apre all’umanità orizzonti di salvezza. Ciò che il profeta promette come dono che il Signore sta per fare al suo popolo, il ritorno cioè dall’esilio in Babilonia – il ritorno del popolo nella sua patria che è al tempo stesso ritorno di Dio nella città santa –, nella prospettiva della liturgia del Natale diventa figura del ritorno di Dio in mezzo all’umanità, da cui lo aveva allontanato la malvagità degli uomini.

Non siamo lasciati soli nel dramma del male, nell’esilio dalla verità a cui la connivenza con il male ci conduce. Nelle fattezze di un bambino inerme viene in mezzo a noi un Dio potente, capace di riscattare il suo popolo. Il Natale è messaggio di speranza perché rivelazione di un Dio vicino fino alla compromissione con la nostra umanità. In un mondo in cui ciascuno è lasciato a se stesso, in cui la totale autonomia appare come un traguardo ambito, ci viene detto che la solitudine non è un destino ineluttabile: l’incontro è ciò che dobbiamo cercare e che ci salva. Questo incontro è il disegno di Dio sul mondo, la consolazione che egli ci dona.

E se Dio ci ha amato così tanto da non lasciarci nelle nostre tenebre e si è rivelato a noi nel volto umano del Figlio, non possiamo restare indifferenti a tale dono, né tantomeno entrare a far parte del numero di coloro che, pur essendo «suoi» per debito di creazione, «non lo hanno accolto», rifiutando di essere generati da Dio per divenirne finalmente figli. Perché, nel mistero del Natale, la parola della consolazione, «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14), si intreccia con una parola di amara denuncia: «Venne tra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11). È il mistero della croce che si annuncia fin dalla grotta di Betlemme. È il mistero che si ripete nel rifiuto opposto a ogni uomo e donna, per i quali vale quanto nell’ultimo giorno quel Bambino, che apparirà come il Signore, dirà come parola di giudizio: «Ero straniero e non mi avete accolto» (Mt 25,43).

Dobbiamo pur chiederci perché in un popolo da sempre aperto all’incontro e all’accoglienza sta prevalendo l’istinto a chiudersi nel proprio guscio, a negare ospitalità a chi viene da paesi in guerra, impoveriti dalle rapine dei potenti, stremati dalla fame. C’è una radice profonda all’origine di questa chiusura ed è la cultura individualista che ha pervaso l’Occidente, quella cultura che tradisce la natura della famiglia confondendola con altro che non lo è, ostenta l’affermazione di presunti diritti individuali corrodendo il concetto di persona, penalizza le espressioni della società civile – da quelle che sostengono la vita degli ultimi a quelle che promuovono cura, cultura e saperi – e questo a vantaggio di un vieto statalismo, si fa sorda alle attese dei più deboli lasciandoli nella marginalità, giunge a permeare di fragilità il volto di una Chiesa in cui esperienze di generoso servizio si trovano a dover

convivere con il devastante e vergognoso tradimento dei piccoli. Sono alcune delle molte ramificazioni di una radice che si nutre di rifiuto, di disprezzo dell’altro, negando gli orizzonti della comunione.

A Betlemme, per Maria e Giuseppe, se non ci fu posto nell’alloggio, non mancò almeno l’accoglienza in una stalla. Che cosa ci sta accadendo dal momento che, di fronte alle oggettive difficoltà di inserire nella nostra società persone provenienti da mondi e culture diversi, in questi anni non si è ancora riusciti a trovare forme efficaci di risposta che non siano le chiusure dei porti e l’abbandono di fatto all’illegalità, che dà origine, questa sì, a insicurezza e paura? E non ci si dica che questo nulla ha a che fare con il Natale e con la fede. Quel bimbo che nasce è un Dio che si fa carne, un Dio che entra nella storia e se ne fa carico, chiedendo di esserne protagonista, gettando su di essa una luce definitiva e una potenza redentiva mediante il suo gesto di amore.

Al dramma di chi non è accolto, sento di dover accostare, in questo giorno di speranza e di pace, quello di coloro che sono esclusi, tra cui vorrei ricordare i carcerati, per i quali la pena nel nostro Paese troppo spesso non è un cammino verso la redenzione ma piuttosto la dura costrizione a condizioni di vita inumane. Torno a farmene voce, perché chi ha sbagliato non sia emarginato con il suo errore, ma sia accompagnato a riscattare la propria esistenza. Una pena solo afflittiva non aiuta il reo e lo riconsegna alla società non recuperato ma, se possibile, ulteriormente radicato nella propria asocialità.

La fede, lungi dall’allontanarci da questo mondo, ci chiama a una più coerente responsabilità in tutte le sue articolazioni, da quelle familiari a quelle sociali, nella vita economica e politica, attenti ai livelli intermedi delle aggregazioni sociali, specialmente là dove si esprime il servizio volontario e gratuito agli altri, come pure ai campi sempre più decisivi della cultura e della formazione, partecipi a ciò che accade accanto a noi e alle vicende che segnano la storia del mondo, impegnati nella cura della terra, la nostra casa comune. In tutti questi ambiti la fedeltà alla luce del Verbo invita a ricacciare le tenebre che ci avvolgono e che compromettono il volto della persona umana e il bene comune. Ci soccorre in questo l’esplicita affermazione del prologo giovanneo: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).

Il Natale di Gesù viene a dirci l’amore di Dio per l’umanità, la sua fiducia in noi; viene a ribadire che dalla condivisione di Gesù con noi si può aprire una strada di comunione fra tutti gli uomini, e dal fatto inaudito di un Dio che si fa uomo diventa possibile per gli uomini essere più uomini, perché da lui trasformati nel cuore, fatti figli suoi. Sia questo il nostro Natale, il nostro buon Natale!



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