La Liga Terezín, il calcio sotto la svastica

Nel ghetto di Theresienstadt, i nazisti lasciarono che gli ebrei organizzassero un vero campionato di pallone e il 23 giugno 1944 lo mostrarono alla Croce Rossa come esempio della loro benevolenza


La felicità assoluta non esiste. Ma - ha chiosato Primo Levi, uno cui è bene prestar credito - non esiste neanche l'infelicità assoluta. Si oppongono, all'una e all'altra, la finitezza umana, l'incertezza, la speranza e molto altro. Come sopravvivevano, gli internati dei lager? Come costeggiavano l'abisso senza precipitarvi? Li tratteneva la prospettiva di un raggio di sole sulla coltre gelida di neve, o il misero sollievo di una scarpa non bucata magari sottratta a un cadavere, o un temporale rinfrescante nella polverosa calura estiva. O, ancora, l'inconfessabile trepidazione per una partita di calcio, che oltretutto poteva implicare una razione supplementare di zuppa.
Nel 1939, migliaia di squadre già si contendevano la passione dei tifosi europei, ma quando Hitler appiccò l'incendio bellico, i campionati cessarono ovunque e i calciatori imbracciarono il fucile. Non tutti, in effetti. Proprio la nazionale del Terzo Reich, fino a tutto il 1942, continuò a giocare grottesche e surreali “amichevoli” con le rappresentative dei paesi occupati o satelliti, mentre il torneo nazionale fu disputato anche nei primi anni di guerra. Il 22 giugno 1941, il giorno che la Wehrmacht invase la Russia, a Berlino si disputò la finale del campionato, che fu vinta dal Rapid Vienna sullo Schalke 04 – per una singolare coincidenza della storia, nelle stesse ore, i sovietici erano in procinto di inaugurare lo stadio Respublykanskyi di Kiev, da intitolare a Nikita Chruščёv, ma la prevista partita Dinamo Kiev-CDKA fu cancellata dopo che le prime bombe caddero alla periferia della città.
Anche ad Auschwitz si rincorrevano palloni. Ancora Levi, nel libro “I sommersi e i salvati”, racconta di una partita fra i ranghi delle SS e alcuni membri delle famigerate Squadre speciali, i gruppi di prigionieri cui i nazisti delegavano la “gestione dei crematori”, cui toccava cioè spogliare i corpi, cavare i denti d'oro, tagliare i capelli femminili, rimuovere le ceneri e altre atroci incombenze. Per lo scrittore morto suicida nel 1987, proprio quella partita era il simbolo della corruzione morale dei campi di sterminio, dove carnefici e vittime coabitavano in una medesima “zona grigia”, sordida essenza della logica aberrante dell'olocausto.

Le immagini delle partite furono girate dagli stessi nazisti, per un film con intento propagandistico

Le immagini delle partite furono girate dagli stessi nazisti, per un film con intento propagandistico

Uno dei pochi posti dove, durante la guerra, si continuò a giocare a calcio con i due punti in palio fu il ghetto di Terezín, nel quale i nazisti lasciarono che i molti giocatori ebrei che vi erano confinati organizzassero la seguitissima Liga Terezín. Per i prigionieri era una questione di sopravvivenza, per le SS era parte di una più generale strategia mistificatoria.
Alla fine del 1941, i nazisti trasformarono la fortezza di Terezín in un ghetto (o campo di concentramento di Theresienstadt), dove stiparono gli ebrei della Cecoslovacchia, dell'Austria e della Germania, l'élite ebraica mitteleuropea: vi erano compresi professionisti di vari settori, scienziati, musicisti, scrittori, artisti e atleti di livello. Per quanto fosse insopportabilmente sovraffollato, vi dominasse la fame, la malattia e la disumanità più estrema, il ghetto fu presentato come un modello di insediamento ebraico, con un barlume di amministrazione autonoma e diverse attività culturali, ricreative e sportive. Fra queste ultime, il calcio fu assiduamente praticato, sia dai bambini che dagli adulti.
I primi, nella maggioranza orfani, seguivano vari programmi educativi e formativi, sotto la supervisione di mentori appositamente dedicati. I ragazzini, le "aquile" in maglia biancorossa, si fecero un nome come calciatori, le cui imprese venivano raccontate in tre pubblicazioni dove era richiesto che scrivessero loro stessi, allo scopo di "affinare il modo di pensare", come ricorda uno degli adulti incaricati delle loro cure, che erano soprattutto volte a circondarli di un cordone protettivo che li preservasse dai peggiori orrori della clausura.
I grandi non si accontentarono di impiegare lo sport come un mero passatempo, ma riuscirono - e, anzi, furono incoraggiati - a dar vita a un vero e proprio campionato. Le partite di 60 o 70 minuti si disputavano nel cortile principale della fortezza, dove non potevano esser schierati più di sette giocatori per parte e attorno al quale si assiepavano fino a 3.000 spettatori, inclusi assai spesso gli alti ufficiali nazisti. Le operazioni erano dirette da veri arbitri e a partire dal 1943 la kermesse si strutturò con sei compagini, ognuna rappresentativa dei posti di lavoro in cui erano impiegati i prigionieri. Né fu un ostacolo insormontabile che, per ovvie ragioni, gli effettivi delle squadre cambiassero con enorme frequenza e rapidità: per rimediare alla “caducità” dei calciatori, ogni lunedì mattina si tenevano sessioni di “calciomercato” volte a sostituire i giocatori morti o deportati nella settimana precedente. Non mancavano nemmeno i professionisti: quando a Terezín fu rinchiuso Jirka Taussig, il portiere della nazionale cecoslovacca, tutti se ne contesero le prestazioni, fino a che l'estremo difensore ceco decise di giocare per la squadra degli "Abiti usati": «Eravamo le stelle del campo, un modello per i ragazzini - ha ricordato Taussig molti anni dopo -, davamo loro una speranza e una piccola scintilla vitale in un posto dominato dalla morte».
Pur sotto l'inflessibile vigilanza dei loro aguzzini, erano gli stessi internati a gestire tutta l'organizzazione e alcuni ne sembrarono trarre degli insegnamenti per il futuro, vedendo nel microcosmo del ghetto, nel lavoro volontario e nel mutuo aiuto che tutti si prestavano disinteressatamente, i semi dell'armoniosa società sionista che fantasticavano di erigere in Palestina. Su insistenza del sovrano di Danimarca e del governo di Copenaghen, i nazisti consentirono persino che una delegazione delle Croce Rossa danese visitasse l'insediamento: prima si premurarono di restaurare gli edifici più malmessi, di tinteggiare le mura e di piantare delle aree verdi; inoltre, per alleviare l'insopportabile sovraffollamento, oltre 17.000 reclusi furono spediti in fretta e furia ad Auschwitz. Il 23 giugno 1944, tre membri dell'associazione umanitaria giunsero a Terezín e un incontro di calcio si tenne appositamente per intrattenerli: il trucco funzionò e i visitatori se ne andarono rassicurati sulle intenzioni benevole dei nazisti.
Solo dopo la fine della guerra, si sarebbe scoperto che più di 158.000 ebrei erano stati rinchiusi nel ghetto, oltre 35.000 vi erano periti, mentre 90.000 avevano completato il viaggio verso i campi di sterminio, dai quali solo il 5% aveva fatto ritorno. Dei circa 9.000 bambini e ragazzi inviati ai lager da Terezín, solo 325 sopravvissero.

Paolo Bruschi