Poveri e semplici, il romanzo grezzo della Ortese

È associata al Poeta di Recanati, Giacomo Leopardi; insieme a Elsa Morante è considerata una delle più illustri scrittrici del Novecento, il suo nome è Anna Maria Ortese, poetessa e narratrice dolorosissima capace di denunciare, attraverso approcci metafisici e metastorici, le isolate realtà, le solitudini intime. Abile nel raccontare i dolenti ritorni, la povertà come vita d'essenza, le giostre dell'esistenza, gli spasimi e il "singhiozzo lamentevole del dannato".

Con il romanzo Poveri e semplici (editore Vallecchi)  il 4 luglio 1967, con 97 punti e solo uno di differenza da Il gabbiano azzurro di Raffaello Brignetti, Anna Maria Ortese vince il Premio Strega. Quello stesso anno concorrono con lei anche Goliarda Sapienza con Lettera Aperta, Ercole Patti con Un bellissimo novembre, e il romanzo L'equilibrio di Tonino Guerra.

Nonostante la vittoria del Premio Strega, poco noto è rimasto ancora oggi il romanzo grezzo Poveri e Semplici. Il nome della Ortese, è legato alla fama, congiuntamente alle polemiche scaturite, del suo scritto più celebre "Il mare non bagna Napoli".

E' ricordata come “una scrittrice così schiva, così estranea a frequentazioni mondane, a salotti e a cerchie letterarie, che delle tante città in cui ha vissuto confessa di conoscere solo i modesti quartieri, le povere vie dove abitava” - scrive così, della Ortese, Francesca Lazzarato nella rivista Noidonne, del 1986. Voci strette e confuse di forestieri si accalcano nella mente della scrittrice romana, innamorata di Napoli, congiuntamente a disegni fantastici di immagini favolose e oniriche, sono quelli che costruiscono una personalità complessa, la sua, di donna eccellente, in perenne ricerca di rifugio.

TRAMA

Poveri e semplici  è un racconto vivace, d'amore e memoria. Ricorda un periodo di luce, quello vissuto a Milano, dopo la liberazione; periodo che è stato per lei, Bettina, protagonista del racconto e alter ego della scrittrice,  come un risveglio, come scrive nella prefazione Alfonso Gatto. La vicenda si svolge a Milano, in un appartamento di via San Celso, negli anni ’50. Un gruppo di destini diversi, di amici e vite ancora adolescenti, in una calda e appassionata atmosfera bohemien, si ritrovano a vivere sotto lo stesso tetto e a condividere la stessa abitazione. A pochi passi dal Duomo, in quella convivenza eterogenea di destini incrociati, vivono la giovane coppia Andrea e Sonia, lui, professore di lettere e barone, è redattore di “Nova Pravda” e scrittore; lei, è una giovanissima creatura, appena sedicenne, mutevole e fatata; Augusta, Roy e Bettina, la narratrice.  Come sarà per Angelici dolori e più tardi per Il porto di Toledo  si tratta di una voce femminile, in prima persona – come si addice all’impostazione diaristica usata dalla Ortese -  è un’«infanta», la voce di una giovane donna  a fare  da guida. Roy è il figlio della padrona di casa, un ragazzo con un bel viso e due occhi che non ridono mai: elegante ma infelice. Augusta, zia di Sonia, che osserva con occhi curiosi il matrimonio della nipote con il Barone che in Calabria ha già una moglie. Bettina, appena maggiorenne, di origini abruzzesi e partenopee, con la passione per la scrittura, esattamente come Andrea.

“Eravamo malgrado ciò, veramente artisti? O semplicemente comunisti? O dei poveri sbandati?”

Ragazzi con tanti sogni che nella città lombarda ricca di opportunità, vivono con poco, talvolta a stento riescono a pagare l'affitto e le bollette, sopravvivono facendo lavori sporadici e mal pagati. Da questa comunione di esigenze e di speranze nasce tra loro una solidarietà unica, fondata su una vicinanza di ideali politici ispirati al socialismo o al comunismo, oltre che all'amore per l’arte e la letteratura. Bettina scrive racconti, articoli, partecipa a concorsi. Con alcuni racconti vince premi in denaro, riuscendo così a risollevare le finanze della casa e a pagare l'affitto. A sopravvivere. L'incontro con il giornalista Gilliat farà scattare qualcosa nell'animo della giovane Bettina, ma anche in quello di Sonia che , a sua volta sembra interessata al celebre cronista. Entrambe prive di egoismi però, abbandonano l'idea di invaghirsi apertamente dell'uomo che in ogni caso è sempre in viaggio e resta per entrambe un'anima vagante e oscura. Qualcosa però si incrina e la casa che un tempo aveva reso unica quella solidarietà tra individui sconosciuti, poco per volta e per svariate ragioni,  si svuota.

Dal coro-protagonista della grande Famiglia alla voce solista della Ortese

La grande famiglia che la Ortese descrive nel suo libro, in quel piccolo appartamento milanese regala l'immagine di una convivenza apparentemente ideale, tra membri diversi uniti solo dal desiderio di resistere alla storia, alla miseria, per scriverla. Tuttavia, quando subentrano le ragioni del cuore e sbaragliano quelle della mente, tutto si rimette in gioco. I rapporti esplodono, si avvicendano gelosie ed emergono antagonismi. I caratteri si delineano quando i personali interessi, quindi gli individui, si muovono singolarmente per raggiungere obiettivi che escludono il gruppo. Gli schieramenti si  evidenziano, i legami si spezzano e le fisionomie si ridisegnano. Così, il coro-protagonista, sulla nota della vicenda d’amore, stecca, ridimensionando le voci corali, ad un singolo canto solista. Quella sentimentale, diventa una fiaba amara di rottura tra solidali e semplici  rapporti umani. Emerge però, soprattutto nella prima parte, la forza di un legame unico e solido, l'immagine di una comune alleata, il disegno di una famiglia non convenzionale, fatta di affetti  capaci di reagire con entusiasmo a quella povertà che li rende così appassionati,  unici e semplici.

«E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto».

Profilo della scrittrice  

Nasce  a Roma il 13 giugno 1914, e con la famiglia si sposta in varie città tra cui, Venezia , Milano Rapallo, Napoli che diventerà la città delle sue ossessioni. Terra di origine della madre, Napoli sarà per la Ortese la patria dei suoi assilli più trasognati.  Il capoluogo campano anima la fantasia e le segrete ossessioni della scrittrice, nobilissima terra, come lei stessa la definisce, anche nel suo degrado estremo e nel suo finissimo sconforto. “A Napoli, commuoversi, era come addormentarsi nella neve.” Questa città diventa per la Ortese il correlativo oggettivo delle sue pagine. Lei, minuta nel fisico come se avesse deciso di scomparire ha scritto di lei Dario Bellezza, notturna e senza pace, la vita della Ortese è segnata da due dolorosi eventi : la morte dei fratelli. Fa studi irregolari ma la vocazione per la scrittura la spinge a lavorare come redattrice per le riviste Italia letteraria e Sud. Profondamente convinta dell'inutilità dello scrivere per cambiare il mondo, resta incapace di tradire la sua vocazione di scrittrice, sempre per dire la sua verità, di Cassandra e Antigone insieme.

Anna Maria Ortese è donna di solitudine che riempie le giornate solo di fantasmi, popola i silenzi con presenze effimere e trasparenti. “Era sola come può essere una pietra”  - dice di lei  il critico Pietro Citati -   “Sola, come può esserlo un mucchio d'erba in un giardino. Una personalità straordinaria la mescolanza di uno gnuomo, uno strega, un folletto e di una suora”. Chi l'ha conosciuta la descrive come una donna dai “ riccioloni neri, vestita di nero, grandi stivaloni, faccia pallida”. Aveva una tendenza doloristica, e non amava presentarsi in pubblico anzi era diffidenza con tutti. Schiva paurosa, nevrotica ma con delle astuzie particolari. Nella sua famiglia vigeva un dolore fortissimo per la morte dei suoi due fratelli. Nel 1933 il fratello marinaio Manuele muore al largo dell’isola di Martinica; Lo stesso anno esordisce con la pubblicazione di tre poesie su «La Fiera Letteraria», tra cui una intitolata Manuele. Anche un altro fratello marinaio, Antonio, da lì a poco morirà al largo delle coste dell’Albania e dal 1952, a seguito della morte di entrambi i genitori, il nucleo familiare della scrittrice si ridurrà alla sorella Maria, con la quale Anna Maria vivrà tutta la vita.

Il poco successo di pubblico e la scarsa attenzione da parte della critica non le impediranno di avere però dei sostenitori nel mondo letterario, uno fra tutti Pietro Citati che la definirà “la zingara sognante”, cogliendo l’essenza stessa della Ortese. La scrittura diventa per lei una medicina per curare il male e convivere con esso. Lei arriva alla scrittura attraverso il dolore. Esordisce nel 1937, scoperta da un editore , Valentino Bompiani e segnalata da Massimo Bontempelli. Viveva da povera, spesso aiutata dallo stipendio della soccorrevole sorella che faceva la postina. La sua letteratura nasce da simbologia della solitudine. Era complicatissima e ha sempre scompaginato le carte con i suoi scritti. Con Il Mare Non Bagna Napoli, nel 1953, arriverà una labile notorietà, non scevra da forti polemiche per via delle critiche mosse nel libro al gruppo di intellettuali napoletani che si raccoglie intorno alla rivista «Sud»; la scrittrice mai rinuncerà a posizioni critiche nei confronti del mondo letterario dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere a tutti gli effetti.

Conclusioni

Poveri e semplici nonostante la vittoria dello Strega, ancora oggi, resta un diamantino grezzo, rimasto in ombra. Maria Bellonci, ideatrice del Premio Strega, parlando della vittoria della Ortese, ricorda che in quegli anni la pornografia si affacciava prepotente al cinema e pareva condizione addirittura necessaria per chi si mettesse a scrivere. Dunque, sembra che qualcuno abbia visto  nella scelta del libro della Ortese una forma di tacita ribellione dei votanti contro la moda dell'imperante oscenità.  Prosegue Maria Bellonci:”Poveri e semplici è un libro esile, forse semplice ma non povero; è un piccolo poema di una purezza inquietante e come sul punto di frantumarsi, una memoria del tempo perduto e ritrovato nelle sillabe sguarnite”.

Margherita Ingoglia

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