Il 21 gennaio 1990, agli Australian Open, Gerry Armstrong squalificò il tennista americano, che divenne il secondo giocatore della storia a perdere così in un torneo dello Slam
Tirato dalla bramosa voglia di (ri)mettere all'incasso la propria fama, qualche anno fa John McEnroe ha mandato alle stampe una seconda autobiografia, dallo stringato titolo "100%". Al pari di molti altri eroi sportivi (veri o sedicenti), è stato evidentemente influenzato dall'enorme successo riscosso da quella di Andre Agassi, certo resa memorabile, oltre che dalle alterne vicende della vita del "Kid di Las Vegas", dall'ammaliante penna del premio Pulitzer J. R. Moehringer, che McEnroe ha provato a scimmiottare fin dall'inizio. Si è infatti incerti se considerare l'incipit di "100%" come un rispettoso omaggio allo stile di "Open" o piuttosto un maldestro tentativo di plagio.
In breve, vale assai di più la prima fatica letteraria dell'ex campione americano (non a caso scritta insieme al giornalista e romanziere James Kaplan), che porta inoltre l'assai più evocativo titolo "Non puoi dire sul serio". Chi non ricorda la più famosa delle sfuriate del "Supermoccioso", nel tempio sacro del tennis, all'indirizzo del malcapitato Edward James, durante la partita contro Tom Gullikson? Maestro del serve-and-volley, dotato di una manina fatata capace di far atterrare la pallina sopra una moneta dall'altra parte della rete, McEnroe fu un dominatore del tennis all'inizio degli anni '80 del secolo passato. Nel suo palmarès di singolarista, figurano tre Wimbledon e quattro vittorie agli US Open, conquistati in un periodo nel quale per il circuito incrociavano tipi formidabili come Bjorn Borg, Jimmy Connors e Ivan Lendl. Il gioco raffinato era tuttavia bilanciato da un'indole per niente sofisticata. Scoppi d'ira, insulti per arbitri e giudici di linea, parolacce e racchette infrante corredavano le partite di McEnroe, al pari dei ricami tecnici più impensabili, e l'intero quadro contribuiva a farne uno degli atleti più seguiti e tifati dagli spettatori: il carattere era esplosivo come il servizio, e a volte il secondo non riusciva a porre rimedio alle intemperanze del primo, come accadde il 21 gennaio 1990.
Agli Australian Open di quell'anno, il trentenne talento a stelle e strisce era alla ricerca della gloria passata e sperava di fregiarsi del primo Slam da che aveva vinto a Flushing Meadow nel 1984. Al quarto turno, si trovò di fronte lo svedese Mikael Pernfors, un giocatore che (proprio come Supermac) si era messo in luce nei campionati universitari americani, onesto faticatore del court e del tutto alieno dagli eccessi e dalle sregolatezze dell'americano. Pernfors aveva tutta l'aria di apprezzare il dono che madre natura gli aveva elargito. Pareva grato di poter godere le gioie e gli inciampi del tennis, e soddisfatto di girare il mondo all'inseguimento perenne dell'estate in compagnia di ragazzi e ragazze gagliardi e in salute come lui. Insomma, uno che considerava le durezze del tennis con tutta la benevolenza possibile e che esternava in ogni modo tale atteggiamento atarassico: una volta, aveva sorpreso colleghi e giornalisti presentandosi in conferenza stampa con una maglia su cui era stampata la frase "Ho avuto cinque match-point contro Boris Becker" e sulla schiena "... e poi sono andato nel pallone!".
McEnroe archiviò facilmente il primo parziale, ma nel secondo subì il ritorno del rivale. Avanti per 2-1 nel terzo, contestò una chiamata arbitrale, avvicinandosi minacciosamente a una giudice di linea. L'arbitro Gerry Armstrong, uno dei più noti e rispettati dell'intero circuito, lo punì con un'ammonizione, che ripeté nel quarto set dopo che McEnroe ebbe fracassato la racchetta in seguito a un dritto sbagliato. A quel punto, eruppe la maleducazione del "Supermoccioso", che investì il giudice arbitro con offese e improperi ben udibili dal pubblico sugli spalti e a casa. Con l'ovvio assenso del supervisor del torneo Ken Farrar, ad Armstrong non restò che scandire le definitive parole che in un major non si udivano dal Roland Garros del 1963, quando avevano sanzionato la cattiva condotta dello spagnolo Willie Alvarez: “Squalifica per il sig. McEnroe. Gioco, partita, incontro, Pernfors!”. In conferenza stampa, un McEnroe insolitamente dimesso ammise di aver malinteso le regole e di essersi scordato che una recente modifica aveva ridotto a due i richiami prima della squalifica.
Qualche anno fa, in una rilassata intervista al New York Times, McEnroe è tornato sull'episodio, cercando di rammentare il suo stato d'animo e la reazione, straordinariamente passiva per uno col suo carattere: le labbra, pesantemente irrorate di balsamo, fisse in una smorfia di incredulità; la testa, circondata da una bandana, scossa in segno di disapprovazione e un lungo sguardo interrogativo verso Armstrong. «Fu uno shock, direi» concesse l'americano, «ma ho spinto così tante volte la situazione al limite che se anche quella volta fui squalificato ingiustamente, ce ne sono sicuramente state altre in cui non fui cacciato pur meritandolo».
Con la tecnologia che oggi dirime incontestabilmente le palle dubbie, nessuno più inveisce contro l'arbitro per una chiamata fuori o dentro. McEnroe sprecava un sacco di energie e metteva in circolo così tanti pensieri negativi che la sua tendenza a polemizzare alla fine non poteva che penalizzarlo: «Oggi, sarei stato un giocatore migliore» ammise l'ex numero 1 del mondo, «non credo alla teoria che traessi benefici dall'auto-motivazione o dalla distrazione dell'avversario in conseguenza della mia tendenza al conflitto».
L'incidente, per così dire, ebbe la sua origine nel precedente mese di dicembre, quando McEnroe giocò un incontro di Hopman Cup contro l'Italia. Nel match contro Paolo Cané, lo statunitense perse più volte la calma e andò vicino alla squalifica, ma trattandosi di una manifestazione del 1989 vi si applicavano ancora le vecchie regole sanzionatorie: ammonizione, punto perso, gioco perso e solo dopo squalifica. Benché McEnroe avesse allora provato a incolpare il suo manager Sergio Palmieri, aveva colpevolmente mancato di prendere visione del nuovo regolamento, che secondo consuetudine era stato distribuito dagli organizzatori a tutti gli iscritti agli Open d'Australia. Dopo la decisione dell'arbitro, il pubblico protestò rumorosamente. Tutti volevano vedere in campo il proprio idolo: «A dire la verità, ho spesso beneficiato di un trattamento di riguardo quando ero al top della carriera» riprese McEnroe. «Gli spettatori, ancora oggi che gioco le esibizioni o i tornei dei veterani, mi si rivolgono con la mia battuta famosa “Non puoi dire sul serio!” e si aspettano una delle mie sceneggiate, le considerano parte dello spettacolo per cui hanno pagato. A ripensarci è una dinamica assai bizzarra: vengo tuttora pagato di più per comportamenti che in passato mi costavano delle belle multe!».
Paolo Bruschi





