La partita dell'assedio di Firenze

Accerchiati da mesi dalle truppe imperiali di Carlo V, il 17 febbraio 1530, i fiorentini non rinunciarono alla tradizionale sfida di carnevale. Pochi mesi dopo, la città fu però costretta a capitolare


(Questo post è una versione multimediale dell’articolo uscito il 15 febbraio scorso su Alias, il supplemento settimanale di il manifesto)

Durante l'assedio nazista di Leningrado, che uccise oltre un milione di civili e spinse gli abitanti stremati a nutrirsi dei cadaveri, Iosif Stalin ordinò che in città si disputassero delle partite di calcio per dimostrare all'invasore che la resistenza era ben viva. Già allora l'uso dello sport a fini politici non era una novità, ma è verosimile che il dittatore sovietico ignorasse un precedente assai remoto. Nel 1527, i lanzichenecchi e gli spagnoli al soldo dell'imperatore Carlo V avevano messo a sacco Roma e costretto alla fuga papa Clemente VII, al secolo Giulio de' Medici. L'enormità della notizia aveva risvegliato a Firenze i sentimenti anti-medicei e il popolo ne aveva approfittato per restaurare le libertà repubblicane soppresse quindici anni prima. Con un repentino ribaltamento delle alleanze, il papa ottenne l'appoggio dell'imperatore d'Asburgo e le truppe imperiali si volsero allora contro Firenze, per propiziare il ritorno al potere dei Medici.
Nell'inverno del 1530, Firenze era accerchiata da diversi mesi. I commerci sospesi, le botteghe serrate, gli stomaci vuoti non incrinavano la determinazione dei fiorentini, la cui "dolce libertà" era difesa da 8.000 mercenari e da una milizia popolare di 5.000 uomini, oltre che da ben munite e rinnovate fortificazioni, che si dovevano in larga parte all'ingegno di Michelangelo.

I frammenti del braccio spezzatosi nei tumulti del 1527 furono raccolti da Giorgio Vasari e Cecchin Salviati. L'arto fu risistemato solo nel 1543

Già autore del David, il cui braccio sinistro era stato spezzato proprio nei tumulti che avevano condotto alla cacciata dei Medici, l'insigne artista aveva fatto rivestire i bastioni di "mattoni crudi", seccati al sole e non cotti, che si erano rivelati particolarmente adatti a reggere l'urto delle artiglierie per la loro maggiore elasticità. La sensazione era pertanto che la cinta difensiva fosse inespugnabile e gli orgogliosi fiorentini potevano scrivere sui muri "poveri e liberi". In questo clima, per la ricorrenza del carnevale, fu deciso di non sospendere la tradizionale partita di calcio, che per l'occasione fu anzi disputata in piazza Santa Croce, così da risultare ben visibile alle forze assedianti attestate sulle colline di fronte. Il 17 febbraio 1530, la Signoria uscì in pompa magna da Palazzo Vecchio e il popolo accorse per assistere alla contesa, incurante dei tiri di cannone. Una squadra si schierò in livrea bianca, a simboleggiare l'ideale della libertà; l'altra indossò le insegne verdi, emblema dell'esercito cittadino. Per "maggior vilipendio de' nemici", che vedessero e sentissero bene, un gruppo di musici si arrampicò sul tetto della chiesa di Santa Croce e con trombe e tamburi accompagnò le accanite fasi di gioco. Furono segnate diverse cacce, con gran divertimento del folto pubblico, ma nessun cronista dell'epoca riportò il punteggio finale, né chi si aggiudicò la vitella bianca posta a trofeo della gara. Era chiaro a tutti il significato della giornata, il cui maggior intento era accomunare vincitori e vinti nella memorabile impresa e nell'invio di un messaggio di sfida al nemico alle porte.

Una raffigurazione della morte di Ferrucci per opera di Maramaldo. L'epica risorgimentale mise poi in bocca all'eroe morente la famosa frase: "Vile, tu uccidi un uomo morto!"

In agosto, dopo che il valoroso condottiero Francesco Ferrucci era stato ucciso da Maramaldo nella decisiva battaglia di Gavinana, la fame, le malattie e la disparità delle forze in gioco ebbero infine la meglio sui fieri resistenti. La pace restituì Firenze ai Medici e i sostenitori della Repubblica furono perseguitati e giustiziati. Le immani distruzioni e l'ecatombe di giovani vite non furono estranee al declino della città nei decenni successivi.

 

Paolo Bruschi