
Le epidemie hanno riempito pagine di storia. Leggere le poche cronache dal Medioevo mette ancora spavento, così come le testimonianze della grande peste napoletana del Seicento. Oggi sono lontanissime le immagini delle danze macabre di scheletri avvinghiati agli uomini, che rappresentavano il volto della pestilenza in epoca medievale. Nei secoli passati norme, condizionamenti, statuti, proteggevano il possibile, le poche conoscenze mediche non fermavano il flagello. Un male invisibile. Poi, forse per esorcizzare le angosce collettive, la paura ha generato le immagini disegnando il profilo della malattia. Nelle città europee agguantate dal morbo, giravano i medici che si prendevano cura delle vittime, indossavano un abito nero che da allora ha assunto connotazioni sinistre: coperti dalla testa ai piedi e indossavano una maschera con un lungo becco d’uccello.
Anche la letteratura si è nutrita raccontando le epidemie: da Manzoni a Mann, da Camus a Saramago. Ciò che rimane più saldo sul terreno della comunicazione, però, è l’immagine. Niente è più evocativo, più didattico di una figura. Specie se ciò di cui si parla è invisibile. L’Occidente possiede in seno alla sua cultura rendere l’invisibile in immagine.
Soprattutto il secolo appena chiuso ci ha insegnato che tutta la nostra cultura vive attraverso le immagini. Sappiamo anche che la paura corre più di un virus, e noi “spettatori” degli attentati in Francia del 2018 lo abbiamo confermato.
Nonostante questo totalitarismo mediatico che ci nutre, solo oggi 27 marzo, da quando è esploso il contagio, si è materializzata l’immagine chiave, più evocativa degli effetti della pandemia: il sagrato della Basilica di San Pietro, con la sola figura di Papa Francesco, raccolto nella preghiera, ostentando il Santissimo sacramento in una Piazza avvolta in un mantello di solitudine. Nel giorno della “Annunciazione di Maria Vergine”, non ci sono processioni solenni, niente feticci sacri. Non ci aspettiamo miracoli. Scavando nell’enciclopedia delle immagini, raramente troveremo una Chiesa tanto isolata.
Per il Covid-19, però, sembra la paura meno veloce del contagio. I Paesi europei si scoprono incapaci di contenere prontamente una nuova epidemia.
Eppure li abbiamo visti tutti le sagome indefinite dei medici cinesi. Poi è toccato a noi. I nostri anziani, e non solo. Ancora nessuna cultura dell’immagine, però, contribuisce alla percezione del pericolo: soltanto il vuoto delle nostre città d’arte pesa l’entità del danno.
Gli esperti si affidano ai numeri. Ci comunicano quotidianamente cifre, curve esponenziali ma il contagio non si ferma. La percezione del virus Covid-19 sembra affidato a un calcolatore di cassa.
In Italia le immagini passano, ma non bastano i solchi delle mascherine sul viso degli infermieri, distribuiti qua e là attraverso i social. Non bastano le sequenze dei camici bianchi, degli uomini bardati. Poi arrivano le bare a raccogliere i morti, al nord, mentre nel resto del paese c’era ancora chi andava a passeggiare per i mercatini.
Ancora i social che strumentalizzano, confondono e ci confortano nella solitudine delle case fino a renderci eteronimi. Eppure il virus continua a non avere un’immagine che stimoli le coscienze. Il Corona virus serpeggia indisturbato nella società, quella che più di tutte è abituata a guardare, osservare, a capire attraverso le foto.
E’ forse questo il passaggio che ci è mancato: il male non è stato mostrato abbastanza e, forse, per questo motivo non lo abbiamo percepito in tutta la sua pericolosità. L’elevato numero di contagi di questi giorni in Spagna, sono la prova evidente. Nonostante l’entità del pericolo di contagio, la paura del contagio non ha bussato in tempo alle porte dell’Europa. Sette secoli fa non avevamo i mezzi per combattere la peste, ma possedeva una diversa dimensione della vulnerabilità umana.
Alfonso D’Orsi
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