L'invenzione della maratona

Il 10 aprile 1896, il greco Spyridōn Louīs trionfò nella corsa regina delle Olimpiadi, una gara che affonda le proprie origini nella classicità


Il primo vincitore della maratona olimpica fu Spyridōn Louīs, che si aggiudicò la competizione regina dei Giochi nell’edizione inaugurale del 1896, ovviamente ad Atene. Come noto, le Olimpiadi erano state riesumate dal barone francese Pierre De Coubertin, in un periodo nel quale era in pieno svolgimento un revival della classicità e il podismo era diventato per la prima volta di gran moda, come passatempo e come espressione della virilità.
Nel 1869, il pittore francese Luc-Olivier Merson aveva dipinto “Il soldato di Maratona”, immortalando il ben conosciuto Fidippide (o, secondo altre traslitterazioni, Filippide), che spira dopo aver portato agli ateniesi la lieta novella del positivo esito della battaglia contro i Persiani del 490 a.C. Solo qualche anno dopo, l’inglese Robert Browning mandò alle stampe il poema “Fidippide”, facendo perno su un immaginario collettivo ben radicato e assai risalente, come aveva dimostrato diversi anni prima Elizabeth Barrett (per l’appunto, la futura signora Browning), che nel 1820 a soli 14 anni aveva scritto “La battaglia di Maratona: un poema”.

Il quadro del francese Luc-Oliver Merson

L’inserimento della maratona a chiusura del programma olimpico fu suggerito a De Coubertin dal filologo Michel Bréal, quale esplicita celebrazione della citata corsa di Fidippide. Il suggestivo rimando colse in effetti una reale tradizione classica, ma se ne discostò quanto a caratteristiche della gara, come si può per esempio leggere negli studi dei classicisti Thomas F. Scanlon (Inventing marathons: ancient and modern distance running for victory and peace) e Jonah Haberstroh (Ancient Greek Long-Distance Runners: The Cross-Section of Athletics, Religion, and the Military), dell’Università della California, a Riverside.
Nel componimento di Browning, si fa riferimento alla visione del dio Pan capitata a Fidippide nei boschi che aveva attraversato per recapitare un primo messaggio, da Atene a Sparta, quello con cui la prima chiedeva alla rivale un aiuto, proprio in vista dell’imminente scontro con l’esercito del re persiano Dario I. L’episodio è narrato dallo storico Erodoto nelle “Storie” ed è significativo sottolineare che la descrizione non intende magnificare la prodezza atletica del protagonista (l’aver percorso circa 225 km in meno di 48 ore), ma piuttosto enfatizzare l’incontro con la divinità quale segno di buon auspicio. La distanza in sé non pareva a Erodoto particolarmente rimarchevole, giacché i messaggeri militari erano soliti prodursi in tali imprese.
Fidippide era un emerodromo (dal greco, “colui che corre per un giorno intero”), ossia un corridore di professione, cui si chiedeva ordinariamente di recapitare messaggi da un città a un’altra o di esplorare zone sconosciute a fini di mappatura topografica. Soprattutto i cretesi erano corridori specialmente rinomati, abituati a terreni impervi e con una cultura podistica talmente introiettata da essere uno dei segni del passaggio all’età adulta: il termine dromeús (corridore) era usato proprio per designare i giovani cretesi nella fase della crescita, prima di intraprendere l’addestramento militare in quella che ora sarebbe la tarda adolescenza. I messaggeri erano di massima importanza durante le guerre, essendo l’unico mezzo per parlarsi a distanza in un’epoca in cui non esistevano sistemi di tele-comunicazione.

La statua di Fidippide a Maratona

La connessione fra i messaggeri, la guerra e lo sport, che ricorre in molteplici resoconti delle Olimpiadi antiche (776 a.C. - 393 d.C.) ed è già presente nell’Iliade, nella parte in cui Omero narra dei giochi funebri organizzati da Achille per commemorare l’amico Patroclo, può aver ispirato la nascita delle gare di fondo (dólichos) e può aver rinforzato la propensione all’allenamento degli emerodromi/atleti. Inoltre, sport e arte bellica, così come un paio di millenni dopo, erano certamente uniti nel perseguimento dell’obiettivo comune dell’eccellenza fisica e della vittoria, come testimoniato dai sistemi educativi sia spartani che ateniesi. Negli spettatori, è probabile che questa associazione suscitatasse una varia miscela di sentimenti, dal sollievo di poter assistere all’espressione pacifica della forza, della resistenza e dell’armonia dei corpi, all'ossessivo pensiero del quasi abituale stato di guerra.
Invece, quanto al tipo di corsa, niente come la maratona moderna si distanzia di più dalle consuetudini classiche, visto che a Olimpia i dólichos si tenevano comunque all’interno dello stadio e per lunghezze non superiori ai nove chilometri. Nella Grecia antica, la vicenda che condusse al successo di Louīs non avrebbe mai potuto aver luogo. Il 10 aprile 1896, alle ore 14, alla partenza della maratona, il già ingente pubblico di casa si doleva per le deludenti prestazioni dei rappresentanti ellenici nel disco e nel sollevamento pesi, due discipline che più di altre rievocavano l’epopea dei Giochi sacri a Zeus. I partenti erano meno di venti, in gran maggioranza greci, ma a metà gara nessuno di loro occupava le posizioni di vertice: Louīs peraltro non dava mostra di alcuna preoccupazione, tanto che trovò il tempo per fermarsi lungo la via a ristorarsi con un bicchiere di vino. Come aveva intimamente previsto, non appena il percorso incontrò le prime asperità, la classifica gli arrise. Presa la testa sulle colline, Louīs entrò nello stadio in splendida solitudine, mandando in visibilio i 70.000 spettatori e conquistando il primo alloro nella più suggestiva delle discipline olimpiche.
De Coubertin fu molto impressionato dalla reazione dei tifosi e annotò sul suo diario: «Sembra quasi che tutti i Greci antichi siano entrati sulla pista insieme a lui. Una tale folla giubilante non si era mai sentita… dobbiamo ammettere che la saldezza psichica gioca nello sport un ruolo assai più importante di quanto eravamo disposti a pensare».

Paolo Bruschi