Calcio contro il nemico a Leningrado

Il 6 maggio 1942, una partita fra le macerie e i cadaveri segnalò agli invasori nazisti che la città assediata era ancora viva


Quando morì nel 1989, gli appassionati di cinema seppero che non avrebbero mai potuto ammirare il film sull'assedio di Leningrado che Sergio Leone aveva in mente di realizzare. Dopo aver mandato nelle sale "C'era una volta in America", Leone volse le sue energie verso l'ambiziosissimo progetto di fermare su celluloide l'epopea della città che aveva sopportato per 872 giorni il tremendo urto della Wehrmacht. Era così determinato che per questo aveva preso contatti anche con lo staff di Michail Gorbačëv, che in quegli anni stava provando a traghettare l'Unione Sovietica fuori dall'asfissiante dittatura comunista ed aveva aperto gli archivi del PCUS alla curiosità dei ricercatori. Chissà se il regista romano, abituale frequentatore delle tribune dell'Olimpico insieme all'amico Ennio Morricone, avrebbe incluso nella trama un riferimento alle partite di calcio che si giocarono durante l'assedio.
L'esercito nazista invase l'URSS il 22 giugno 1941 e con un'inarrestabile avanzata giunse alle porte di Leningrado il 30 agosto successivo. Gli ordini di Adolf Hitler ai suoi generali erano chiari: sarebbe stata una guerra con regole diverse, anzi senza regole del tutto. La città fondata da Pietro il Grande con il nome di San Pietroburgo, la capitale dell'impero zarista, la "finestra sull'Occidente" di un immenso corpo pluri-nazionale più asiatico che europeo, l'orgoglio industriale, economico e culturale della Russia e il simbolo della rivoluzione bolscevica, doveva essere rasa al suolo e i suoi abitanti distrutti con essa.
Circondati da ogni parte, i leningradesi furono mobilitati in massa per erigere fortificazioni anti-carro e scavare trincee difensive, in appoggio ai 200.000 soldati dell'Armata Rossa che inizialmente difendevano il perimetro urbano. Con le vie di accesso sbarrate e le linee di rifornimento tagliate, l'assedio divenne un'estenuante e interminabile teoria di sofferenze e morte. Al Processo di Norimberga del 1946, le autorità sovietiche dichiararono che, prima della liberazione del 27 gennaio 1944, persero la vita a Leningrado 671.635 persone, per il 97% dei casi uccise dalla fame, dalle malattie e dal freddo, sebbene molti storici ritengano che il numero delle vittime debba essere più verosimilmente almeno raddoppiato: numeri che fanno impallidire i circa 800.000 morti che Gran Bretagna e Stati Uniti cumularono insieme in tutta la Seconda guerra mondiale.

Martellata dall'artiglieria tedesca, decimata dalla fame, straziata da centinaia di casi di cannibalismo, Leningrado continuava a resistere contro ogni logica. Con l'inizio del 1942, cominciarono ad arrivare gli aiuti degli alleati, attraverso la "Strada della vita" che in estate correva sulle acque dello sterminato Lago Ladoga e sui suoi ghiacci in inverno. Nella primavera, gli aerei degli assedianti gettarono migliaia di volantini sulla "città morta" con l'intento di galvanizzare i propri soldati e annichilire gli indomiti abitanti: se i nazisti non prendevano la città era solo perché avevano paura delle epidemie che potevano scoppiare per le migliaia di cadaveri disseminati per le strade.

Un monumento sull'isola Krestovsky onora i calciatori che portarono la vita nella "città morta"

La reazione sovietica all'operazione di guerra psicologica fu commissionata a Viktor Byčkov, ex calciatore e capitano dei servizi segreti che in quei giorni stazionava sulle alture Pulkovskie, in attesa di un'imminente operazione militare. Come racconta con dovizia di dettagli Alessandro Curletto ("I piedi dei Soviet", il Melangolo, 2010), un ordine diretto dell'apparato propagandistico del Partito, gli intimò di allestire in 24 ore un "evento calcistico": non era importante quali giocatori avrebbe reclutato e se fossero stati in grado di reggersi in piedi per più di pochi minuti, considerate le ridottissime razioni alimentari distribuite alla popolazione, era importante che si battessero in una vera partita che doveva accendere l'entusiasmo degli spettatori (!) e provocarne la rumorosa partecipazione, così che l'effetto di maggiore naturalezza e vivacità potesse filtrare inconfondibilmente attraverso la registrazione radiofonica che sarebbe stata trasmessa in russo e in tedesco. Byčkov riuscì a radunare rapidamente vecchi amici della Dinamo di Leningrado: alcuni lavoravano nella polizia, altri servivano al fronte e furono distolti dai loro compiti bellici. Tra questi c'erano il portiere Viktor Nabutov, che in seguito divenne un commentatore, e il futuro allenatore dello Zenit Arkady Alov. Dal canto suo, l'oliata, ancorché provata, macchina organizzativa del PCUS riuscì a portare allo stadio della Dinamo oltre duemila spettatori e il fischio di inizio sibilò nell'aria alle ore 14 esatte del 6 maggio 1942.

Non era stato possibile schierare "veri" calciatori contro i giocatori della Dinamo, quindi si risolse di opporli a una squadra messa in piedi dai militari della Flotta del Baltico. I primi erano senz'altro più preparati tecnicamente e tatticamente, ma i secondi avevano razioni di cibo più abbondanti, e forse per questo contennero la sconfitta entro dimensioni non eccessivamente umilianti: finì 7-3 per la Dinamo e il giorno dopo per le rovine della "città morta" risuonarono le voci dell'allenatore Mikhail Okun e dei comunisti austriaci Fritz e Anna Fuchs, che avevano seguito e raccontato da bordo campo lo svolgimento della gara. Sorpresi e arrabbiati, i nazisti risposero con un fitto cannoneggiamento dello stadio.

Sulle partite disputate il 31 maggio e 6 giugno ci sono maggiori informazioni e persino testimonianze fotografiche

Il successo dell'operazione fu tale che altre due partite furono giocate il 31 maggio e il 6 giugno, in entrambe le occasioni contro una selezione della Fabbrica Nevskij. Poi, i giocatori della Dinamo si unirono a quelli dello Zenit e insieme furono imbarcati in una lunga tournée che raggiunse l'Asia centrale e la Siberia: in tutti gli stadi in cui si esibirono, furono calorosamente accolti quali ambasciatori dell'eroica città che non cedeva il passo al mostro nazista.

Paolo Bruschi