Una Santa Croce scomparsa negli anni del boom economico

santa_croce_scomparsa_foto_epoca_2018_09_27_“Non è difficile, entrando in auto in Santa Croce sull’Arno [provenendo dal ponte ndr], esser costretti a rallentare a causa del traffico che all’improvviso si congestiona, ma anche per far posto ad un gregge di pecore che ingombra quasi tutta la strada. Santa Croce, infatti, pur essendo uno dei centri industriali più vivi della Toscana, conserva ancora tutte le caratteristiche esteriori della borgata di campagna. Una borgata che sembra uscita da una vecchia stampa raffigurante una cittadina del West, abitata da pionieri che hanno scoperto l’oro nero, ma squallida e piccola perché cresciuta all’improvviso. Con quelle, S.Croce sull’Arno ha in comune la certezza di un domani sempre migliore anche se imprevedibile. Pure, anche se progredisce in un clima siffatto, S.Croce - la capitale italiana del cuoio - resterà sempre un paese. E’ questo un po’ il suo fascino e, direi, anche il suo pregio e la sua forza. I santacrocesi hanno fama di gente industriosa, che ha il genio dei traffici nel sangue. Non hanno ancora fama di gente che ami uscire dal suo ambiente naturale, come i pratesi che malgrado l’attaccamento - più che campanilistico, morboso addirittura - alla loro città, tendono ormai ad inurbarsi, a spostarsi a Firenze. I santacrocesi, anche quando sono “arrivati”, continuano a vivere felici nel loro paese, dove l’atmosfera è greve per i rifiuti delle concerie, dove si macerano le pelli delle bestie macellate un paio di mesi fa a New York, a Chicago, a Rio de Janeiro, a Buenos Aires, in Australia o in Nigeria. E’ rarissimo il caso di un santacrocese che si allontani dal paese in cui ha iniziato l’attività e se lo fa vi è probabilmente indotto da motivi fiscali.

Negli ultimi anni Cinquanta del Novecento [ndr] “I fratelli Cerrini, che sono probabilmente la maggior potenza finanziaria del paese, hanno da poco lasciato la loro casa di piazza Matteotti e si sono installati in una dimora di cam-pagna che viene definita principesca (si sussurra che la villa e la tenuta che la protegge come una gemma in un astuccio valgano circa 700 milioni di lire). Dino e Raffello Cerrini sono forse, insieme col fratello Antonio, gli uomini che possono dare un’idea più chiara di questo stupefacente paese. Ebbene, benché abbiano deciso di abitare una splendida casa sulle colline, non si sono in effetti allontanati a più di un quarto d’ora di macchina. Eppure questa relativa vicinanza non è sembrata sufficiente alla “regina madre”, alla signora Dina, la vedova di quel Pietro Cerrini che fu il capo-stipite della “dinastia”, la quale ha preferito restare sola in paese, nella sua bella casa, con i suoi deliziosi mobili fine secolo. L’aria di S. Croce le mancherebbe troppo. I Cerrini possono riassumere da soli l’epopea di S.Croce sull’Arno. Il padre dei tre fratelli che attualmente mandano avanti brillantemente l’azienda […] venne su dal nulla e cominciò a lavorare come tutti gli altri coetanei, cresciuti come lui al gran puzzo delle concerie dove il lento ruotare dei bottali vomitava, ormai da secoli, le vacchette per le scarpe gialle dei contadini e dei soldati. Fu a questa scuola che Pietro Cerrini, ancor oggi ricordato con rispetto da tutti, crebbe i suoi figli, che ormai controllano in parte, mi si dice, addirittura l’intera economia del paese. Soprattutto Dino sembra - riferiscono - ricordare il padre: continuamente assorbito dalle molteplici attività, ha lavorato senza soste fin da ragazzo. E’ un uomo cui basta una telefonata per acquistare la pelle di intere mandrie ancora al pascolo nelle pampas argentine; cui è sufficiente un’occhiata per valutare uomini e cose […]. Dino Cerrini è uno dei “self made men” che hanno fatto S. Croce quella che è, che la stanno facendo come sarà. E non è da dire che la razza degli “uomini duri” stia estinguendosi. Questa gente tira su i propri figlioli secondo gli insegnamenti patriarcali, con fedeltà alle tradizioni, anche se sta spostandosi su un piano diverso. Nessuno come gli arrivati, ad esempio, sorveglia gli studi dei figli perché non abbiano a restare indietro, a perdere del tempo prezioso.

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Proprio per questo dicevamo più sopra che S. Croce difficilmente riuscirà a diventare città, a non essere più un paese. Le famiglie più cospicue, più rappresentative, mantengono la scorza delle loro origini e non se ne vergognano: in questo sta la loro forza, il segreto della loro potenza. Nel 1953, S. Croce fu sul punto di crollare perché la produzione nazionale di cuoio superava di gran lunga la richiesta e il fabbisogno. Fu una crisi paurosa dalla quale uscirono soltanto i grossi complessi di Torino, Varese, Milano e Genova. A S. Croce rimasero tutti a galla con le loro sole forze, perché furono abbastanza agili da capire di dove veniva il male e da cambiare prontamente almeno una parte della produzione, indirizzandosi verso i cosiddetti “cromi” (ossia le pelli che servono alla parte superiore della scarpa). Riuscirono a comprendere in tempo cosa era necessario fare, soprattutto perché l’industriale santacrocese non ha mai rinnegato la sua origine, più o meno prossima, di operaio, ma anzi continua a vivere la vera vita di conceria, per quanto scomoda e fati-cosa possa essere. Nei grossi complessi dell’Italia Settentrionale questa caratteristica si è perduta da tempo e gli industriali certe soluzioni sovente debbono attendersele da parte della burocrazia tecnica che manda avanti il complesso produttivo. La stessa cosa era accaduta all’incirca nel 1934, quando fu evidente che la tradizionale produzione di vacchetta stava facendo il suo tempo e ci si orientò verso il cuoio vegetale (quello che occorre per le suole delle scarpe). Ora tutti aspettano il Mercato Comune Europeo. Sanno che la Francia e la Germania difficilmente possono essere battute in certe lavorazioni e che, se non si vuole ad ogni costo uno scontro di concorrenza, occorre specializzare la propria produzione. Da Santa Croce, ormai, viene il 60 per cento di tutto il cuoio che si consuma in Italia. Gran parte delle scarpe che si esportano sono fabbricate col cuoio di Santa Croce. E non è da dire che le esportazioni siano di lieve entità: nei primi sei mesi di quest’anno 6 milioni e 128 mila paia di scarpe hanno varcato le frontiere. Nei primi sei mesi del 1953 se ne erano esportate appena 370 mila paia.

Il futuro, dunque, appare roseo all’orizzonte, ma nessuno, qui, sta con le mani in mano ed è proprio questa laboriosità incessante che meraviglia di più. Perfino gli svaghi, questa gente, se li cerca all’uscio di casa - a Montecatini Terme, a mezz’ora, quaranta minuti d’auto - per poter rimanere fino alle otto sul lavoro. E questi svaghi si limitano, per lo più, a cene fra soli uomini. Gli “arrivati” hanno in genere il gusto della terra ed acquistano tenute e fattorie. Quando non dimenticano l’arte, coprono le pareti della sala da pranzo con i quadri di Mirra Lapi, la pittrice locale, che conosce i loro gusti. Ma è la città termale, col suo silenzio e le sue luci, la sua atmosfera borghese, non ancora cittadina, che li affascina. Nessuno si sposa, a S. Croce, senza offrire il ricevimento alle “Panteraie”, il locale alla moda di Montecatini. Qui sono fuori dalla vista di chi non deve vedere e non si sentono addosso gli occhi critici di chi li definisce provinciali. A metà settembre, in occasione di uno di questi ricevimenti, tutti gli invitati hanno fatto il bagno in piscina prima del pranzo nuziale, benché l’aria fosse già rigida.

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Così sono i santacrocesi, gente che non ha paura e che sa quello che vuole, come lo sapeva fin dall’inizio Umberto Giovacchini, che appena una ventina d’anni fa era un operaio della conceria Cherubino Di Quirico e che oggi non “vale” meno di 200 milioni, a sentire quello che dicono coloro che lo conoscono. Gli esempi sarebbero troppi: basti pensare che prima della guerra non c’erano qui che quattro concerie e che ora ve ne sono 170, di cui 24 su scala industriale. [Nel 1938 le concerie erano 69. Ndr]

Dicono, soprattutto nei paesi vicini, come Castelfranco di Sotto e Fucecchio - che vivono un po’ col complesso di S. Croce - che i santacrocesi ammazzano le pulci solo per conciarne le pelli. Ma questo non è ormai che un luogo comune assai frusto. Non è vero neppure che i santacrocesi siano dei taccagni, anche se il loro rimane, malgrado la presenza di tanti milionari e di qualche miliardario, uno dei paesi più scalcinati che ci siano. A loro S. Croce piace così e le nuove leve la pensano come i vecchi, anche se naturalmente sono di loro più evolute. (Qui, nel 1953, furono applauditi per la prima volta in Italia, “La madre” e “Terrore e miseria del Terzo Reich” di Bertolt Brecht, messi in scena da un gruppo di giovani, raccolto da uno studente universitario, Alberto Pozzolini).

Parlano male dei santacrocesi, insomma, coloro che li invidiano. Raccontano della cena offerta - a Montecatini, naturalmente - ad una quantità di persone dall’industriale al quale il direttore di banca aveva annunciato la mattina che il conto corrente aveva raggiunto la cifra di un miliardo. Raccontano che per solennizzare la vittoria di campionato della squadra locale di calcio (che si chiama, evidentemente, “Cuoiopelli”) un altro industriale offrì un ricevimento spettacoloso cui poté intervenire chiunque.

Raccontano ridendo della signora che tanti anni fa, raggiunta l’agiatezza, usciva sulla porta di casa in un determinato giorno della settimana e ai poveri che si erano radunati lì davanti, fedeli all’appuntamento, distribuiva le elemosine togliendo i soldi a manciate da un canestro.

Non raccontano, invece, che subito dopo la guerra alcuni camion provenienti da Pisa scaricarono sulla piazza del paese un centinaio di ragazzi orfani o poverissimi e che essi furono accolti nelle case dei santacrocesi; e che ancora vi sono tutti, tirati su come figli adottivi.”

Valerio Vallini

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