Quando Edoardo II mise il calcio fuorilegge

Il 13 aprile 1314, il sovrano inglese bandì il football: fu solo il primo tentativo di una lunga (e vana) serie di proibizioni che non impedirono a un gioco arcaico e violento di evolvere nel "beautiful game"


Nel maggio 2012, il presidente del Consiglio Mario Monti fu esortato dai giornalisti a commentare le tristi vicende del calcio italiano. Erano in pieno svolgimento i processi relativi al nuovo scandalo delle scommesse e il mese precedente la partita Genoa-Siena era stata interrotta per le intemperanze dei tifosi rossoblu, che bersagliarono di petardi e bengala il terreno di gioco, pretendendo dai giocatori che svestissero la maglia che non erano degni di indossare - i padroni casa stavano perdendo per 0-4. L'impettito e algido Monti non si lasciò pregare e, da ex appassionato, si produsse in una secca e dura reprimenda, addirittura invitando a riflettere su una possibile sospensione del gioco per 2-3 anni.
Quasi unanime si levò l'indignata e stereotipata protesta degli "addetti ai lavori", da quella insolente dello scomposto presidente del Palermo Maurizio Zamparini, a quella istituzionale di Luigi Abete, capo della Figc, e non mancò neanche quella stupefatta di chi fece notare al premier bocconiano l'enorme danno erariale che sarebbe disceso dallo stop ai campionati.
Monti tuttavia seguiva le orme lasciate da illustri predecessori. Anzi, gli stessi albori del calcio, o meglio, del progenitore del "gioco più bello del mondo" che era in voga nel Medioevo, possono essere letti alla luce dei ripetuti tentativi di proibirne la pratica, soprattutto in Gran Bretagna. Dagli editti censori delle autorità municipali, alle solenni proclamazioni imperative dei monarchi, agli sforzi delle università di impedire ai propri membri di dedicarsi al gioco, i calciatori venivano generalmente additati come individui violenti e seri perturbatori dell'ordine pubblico. A quei tempi, il calcio non era il "beautiful game" che gli inglesi avrebbero esportato in tutto il globo, ma piuttosto un passatempo letteralmente "letale": diverse ricerche mostrano che nel XVI secolo morirono più persone prendendo a pedate un pallone, che lottando o duellando all'arma bianca.

“C'è grande frastuono in città causato da selvagge lotte intorno a una grossa palla…da oggi in avanti è proibito sotto pena di carcerazione, che tale gioco sia disputato in città”, stabilì re Edoardo II

“C'è grande frastuono in città causato da selvagge lotte intorno a una grossa palla…da oggi in avanti è proibito, sotto pena di carcerazione, che tale gioco sia disputato in città”, stabilì re Edoardo II

Giocato generalmente fra villaggi e paesi confinanti, da orde oceaniche che con ogni mezzo necessario cercavano di recapitare una rudimentale sfera ottenuta da una vescica di maiale dentro la chiesa del borgo rivale o in un'altra "porta" appositamente eretta, il folk o mob football (com'era chiamato, a sottolinearne la natura di massa) imponeva frequenti tributi di sangue, non tutti accidentali, poiché molti malintenzionati approfittavano della calca per uccidere, razziare e violentare. Tutti erano coinvolti: uomini e donne, giovani e vecchi, ricchi e poveri, laici e religiosi. Tutti battagliavano per le strade, per i campi, scavalcando ponti e guadando torrenti, contendendosi la palla come cani rabbiosi si sarebbero contesi ossa sanguinolente. Nessuno ovviamente si preoccupava di equilibrare il numero dei due schieramenti, né vi era l'ormai tradizionale separazione fra giocatori e spettatori: a seconda delle circostanze e dei momenti, ognuno partecipava o guardava. Persino William Shakespeare, nel "Re Lear", non mancò di riferirsi al calcio come a un passatempo esecrabile, nel passo in cui il Conte di Kent dileggia il servo Oswald definendolo uno "spregevole calciatore".
Iniziato come un rito della fertilità, che marcava la rinascita della vita dopo la notte invernale o che contrapponeva simbolicamente gli uomini sposati a quelli scapoli, a significare la differenza fra coloro che erano sessualmente attivi e quelli che (almeno ufficialmente) non lo erano, il folk football era evoluto in tali manifestazioni di caos da non poter tardare ad allarmare i governanti. Li angustiava non soltanto il disordine e la rottura delle regole che ne derivavano, ma anche la preoccupazione che il calcio distraesse troppi uomini dall'addestramento militare e dall'uso dell'arco, arma all'epoca decisiva per il successo di ogni esercito - proprio gli abili arcieri inglesi, nella prima fase della Guerra dei cent'anni, assicurarono importanti vittorie a Re Edoardo III contro i francesi di Giovanni II, nel conflitto decisivo per la formazione di Inghilterra e Francia come stati-nazione.
Il primo bando fu emanato il 13 aprile 1314, dal Lord Mayor di Londra Nicholas Farndon per conto del sovrano Edoardo II e stabiliva la pena della detenzione per chi si abbandonasse al gran putiferio e ai tumulti che scuotevano la città a ogni “partita”. Edoardo III si mosse sul solco tracciato dal padre, rinnovando la proibizione nel 1331, nel 1349 e ancora nel 1365, quando la scomunica colpì, oltre al football, altri passatempi plebei come gli antenati dell'hockey e della pallamano, tutti considerati giochi senza senso perché non collegati alle arti militari.
Fra il XVI e il XVII secolo, la questione assunse contorni religiosi. I puritani non tolleravano che gli sport si praticassero di domenica, spopolando le chiese e abituando i fedeli a dissolutezze e degenerazioni in cui vedevano il male assoluto. Re Giacomo I editò allora il suo Book of sports (1618), cercando di portare pace fra i sostenitori del time to pray e i seguaci del time to play: alcuni sport erano ammessi, altri erano vietati. Il compromesso parve lasciare insoddisfatto lo stesso sovrano, il quale sottolineò che le restrizioni avrebbero sollevato un gran malcontento fra il popolo, che lungi dal rivolgersi ai preti avrebbe invece visitato le birrerie, peggiorando ancor di più la sua natura.

Il contenuto del "Book of Sports" di Giacomo II fu ribadito da Carlo I nel 1633.

Il contenuto del "Book of Sports" di Giacomo II fu ribadito da Carlo I nel 1633.

Proprio la reiterazione dei divieti conferma peraltro la loro inefficacia, l'incapacità delle autorità di ottenerne l'applicazione e la crescente popolarità del calcio presso le persone semplici. Tuttavia, stavano maturando le condizioni perché le classi dominanti guardassero allo sport e al calcio con occhi nuovi. Nientemeno che Adam Smith, considerato il padre del liberismo, nella Ricchezza delle nazioni (1776), argomentò che il divertimento insito in gare e partite aiutava a domare l'alienazione procurata dal lavoro. All'alba della società industriale, si comprese che lo sport era suscettibile di trasmettere valori e consuetudini propizie all'affermarsi della moderna economia di mercato. Quanto non era riuscito alle imposizioni monarchiche fu ottenuto con un apparentemente neutrale “vincolo esterno”. Dove fallirono ripetuti atti dell'uomo, provvidero le immani forze della nascente rivoluzione industriale, poiché le incontrollabili folle che giocavano il folk football fra le mura dei vecchi borghi medievali erano incompatibili con l'espansione urbana delle grandi città proto-industriali.
Si celebrò il funerale del folk football e dalle sue ceneri sorsero il calcio moderno e tutti gli sport che ci avvincono ancora oggi. Se i loro antecedenti erano sorti dalla passione e dall'azione popolare, contro la vana opposizione delle classi superiori, la codificazione delle moderne discipline sportive fu il risultato di un'operazione guidata dalle élite sociali, che veicolarono in tal modo i principi e le idee che dovevano concorrere a consolidare il loro potere e il dominio britannico sull'intero pianeta.

Paolo Bruschi