Coronavirus, sui morti non si costruiscano 'sepolcri imbiancati': i dati sul virus e i tagli alla Sanità

Coronavirus Toscana

Se è un adeguato strumento per evitare il contagio da Covid-19, quello di lavarsi le mani non è un gesto altrettanto utile per la politica. Lo dico senza girarci troppo intorno: i morti non siano una giustificazione, vi prego. Il 'bollettino di guerra' annunciato quotidianamente in pubblica piazza non deve diventare un alibi caricato ad emotività per gridare "vedete è un virus invincibile, cosa possiamo fare noi di più?". Gli errori nella pianificazione sanitaria ci sono stati, e la retorica dei "medici eroi" non può nascondere i tagli che da oltre trent'anni colpiscono il Sistema Sanitario Nazionale. La politica non può coprirsi dietro i numeri 'non spiegati' dell'emergenza sanitaria, ma è chiamata ad una seria riflessione su quanto sta accadendo. Partiamo proprio dai numeri dell'epidemia.

Coronavirus Toscana e Italia: l'analisi dell'epidemia (dati ISS)

In Italia ci sono più morti che altrove, questo è un dato di fatto. Ma una cosa è certa, la comunicazione di quei dati è clinicamente e statisticamente incompleta. Partiamo da una considerazione: ad oggi non abbiamo un denominatore per comprendere un indice di letalità del virus, non abbiamo cioè il numero esatto dei contagiati. Nel bollettino dell'ISS l'Epidemia COVID-19. Aggiornamento nazionale 30 marzo 2020, si scrive che la letalità è stimata al 10,2%, tenendo conto dei 10.026 morti al 30 marzo. Si tratta però di un dato statisticamente errato. Non sappiamo quanti sono i contagiati totali in Italia e lo stesso capo della protezione civile Borrelli una settimana fa stimava che i contagi potrebbero essere almeno 10 volte quelli accertati.

Secondo il nuovo studio dell'Imperial College di Londra, in Italia ci sarebbero 5,9 milioni di persone contagiate, ossia il 9% della popolazione. L'origine dell'epidemia, secondo un recente studio dell'università Statale di Milano, può essere collocata in Cina tra la seconda metà di ottobre e la prima metà di novembre 2019, e anche nella nota trasmissione di Rai3, Report, il famoso spinoff (il passaggio di specie dal pipistrello all'uomo) si dice sia avvenuto nella regione di Wuhan a novembre. In Italia si registrano invece casi anomali di polmoniti da gennaio: insomma è praticamente un dato certo che il virus circolasse da mesi e che i contagiati siano molti di più. Di fatto in mancanza di tamponi a tappeto il dato sui reali contagi non lo abbiamo, dunque il dato sulla letalità è certamente 'drogato' ed è certamente più vicino al 'dato noto' della Cina, ossia l'1-3% di letalità. È importante ribadire quindi che il numero dei contagiati è immensamente più grande di quello registrato dalla Protezione Civile.

Eppure sarebbe importante conoscere esattamente i contagiati per comprendere a fini statistico-sanitari l'andamento e i modi con cui il virus si è diffuso. Sarebbe impossibile fare tamponi a tutta una popolazione, ma farne di più e mettere in piedi una campagna di tamponi a campione statisticamente coerente con la popolazione ce lo aspetteremmo. E qui possiamo segnalare una mancanza della politica, incapace di comprendere l'importanza del monitoraggio della diffusione, incapace di comprendere l'esigenza di evitare focolai nelle strutture sanitarie, incapace infine di destinare fondi adeguati per mettere velocemente in piedi una struttura operativa (laboratori, reagenti e personale) in grado di rispondere alla domanda di test sierologici. Qualche passo in tal senso si sta facendo, basta vedere ad esempio i tamponi messi in campo dalla regione Toscana, ma si è agito con colpevole ritardo.

Passiamo alla pagina più buia di questa terribile emergenza sanitaria: i morti. Qui le premesse sono d'obbligo, parlarne sembra un torto fatto alle famiglie delle vittime a cui va tutta la mia solidarietà. Uno studio dei dati, però, andrebbe fatto. I circa 800 morti al giorno vengono presentati come "in attesa di conferma dell'ISS". Nel report dell'Istituto Superiore di Sanità 'Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a COVID-19 in Italia', aggiornato al 30 marzo, erano state analizzate di fatto solo 909 cartelle sugli oltre 10.000 morti, il che ci evidenzia quanto i conti si debbano fare alla fine. Si può però analizzare un trend: questo subdolo virus colpisce fasce deboli della popolazione, immunodepressi, anziani e persone con patologie gravi. L'età media dei morti è di 79 anni, con 8382 morti over 70.

Lo studio sui 909 pazienti rileva anche che il 51,3% aveva almeno tre patologie gravi, il 24,5% due patologie, il 21,6% almeno una patologia. Solo il 2,1% non aveva problemi pregressi. Al 30 marzo sono 112 (1,1%) i pazienti morti di età inferiore ai 50 anni, di quelli di cui si hanno informazioni cliniche solo in 6 non sono state diagnosticate patologie di rilievo. Insomma oltre il 75% presentava almeno due patologie pregresse, per lo più di tipo cardiaco. Questo 'trend' si è mantenuto nel tempo, e anche i report precedenti 'confermano' questi dati. Il campione analizzato è ancora troppo esiguo, ma la comunità medica sembra concordare che il dato tenda a stabilizzarsi.

L'Italia ha quindi scelto di puntare sulla trasparenza nella comunicazione dei dati, ignorando la distinzione tra morti 'di' coronavirus e 'con' coronavirus. La distinzione, però, anche a fini epidemiologici (cioè per affrontare al meglio la diffusione del virus) non è da poco e farebbe maggiore chiarezza su come agisce questo virus. Il discrimine tra un paziente che sarebbe morto comunque anche senza il virus o che aveva uno stato clinico talmente compromesso da poter peggiorare anche per altri motivi e un paziente sano o con patologie non determinanti per la sua salute ci sembra importante. Ognuno poi ne tragga le sue conseguenze, ma viene da chiedersi se gli altri paesi stiano contando i propri morti nello stesso modo, in primis la Cina, e qualche dubbio onestamente c'è.

Coronavirus Toscana: il Covid-19 non è una normale influenza

Questi dati non devono farci però pensare che il Coronavirus sia una normale influenza, ma solo darci un comportamento del virus. Eppure è innegabile che proprio questi dati abbiano indotto i più a sottovalutare il problema in una prima fase, anche tra virologi e medici, i primi a dibattere aspramente sulla questione. Si è stati miopi di fonte ad un virus che sembrava venire da troppo lontano e i cui effetti erano relativamente blandi, si è stati miopi di fronte al boom di polmoniti registrate tra dicembre e gennaio che di fatto sono state ignorate (basta fare una normale ricerca su Google per vedere le ospedalizzazioni anomale nel Nord Italia).  Si è infine tralasciato l'unico dato a cui dovevamo prestare attenzione, soprattutto dopo quel che era accaduto in Cina: il potenziale diffusivo che trasforma quella percentuale dell'1-3% di letalità in un bollettino di guerra e in una tragedia nazionale.

Chi ancora sostiene si tratti di una normale influenza dice una blasfemia medica, vergognosa di fronte alle centinaia di bare che escano dagli ospedali ogni giorno e da un picco di mortalità nelle aree colpite del Nord Italia. Facciamo quindi un po' di chiarezza partendo proprio dai dati sull'influenza stagionale. Secondo l'ISTAT i morti nel 2017 di influenza sono stati 663, l'anno prima erano la metà. La media di morti per influenza annui è di 460 secondo l'ISTAT. È però l'ISS a certificare che "diversi studi pubblicati utilizzano differenti metodi statistici per la stima della mortalità per influenza e per le sue complicanze. È grazie a queste metodologie che si arriva ad attribuire mediamente 8mila decessi per influenza e le sue complicanze ogni anno in Italia". Per riassumere i morti per così dire diretti di influenza sono appena 500 all'anno, mentre le morti 'indirette' e dovute a complicanze raggiungono le circa 8mila all'anno. Sempre per l'ISS, quindi, la mortalità annua dell'influenza è dello 0,1%. Sul portale dell'ISS FluNews si certifica che alla 11esima settimana del 2020 sono 7.199.000 i casi di influenza, in linea con il report dell'anno precedente che ne certifica poco più di 8 milioni. Il 'trend' di mortalità dell'ISS, quindi, dovrebbe essere rispettato.

Ben altri numeri sono quelli del Covid-19, che solo ad oggi conta circa 13.500 deceduti, pur con il margine di incertezza dovuto proprio a morte 'diretta' o 'indiretta' di cui abbiamo parlato, di fatto l'unico vero 'comportamento' che lo rende simile all'influenza. Per comprendere l'impatto del Covid-19 possiamo utilizzare come base statistica il report dell'Istat sui dati della mortalità che mette a confronto 21 giorni del marzo 2019 con quelli del 2020: si tratta per il momento di un dato provvisorio su 1085 comuni, messo a disposizione della comunità scientifica proprio per avere dati certi sull'andamento del Covid-19. La mortalità è di media più che raddoppiata rispetto ai primi 21 giorni di marzo del periodo 2015-2019. L'esempio del Bergamasco, fulcro dell'epidemia, basta per comprendere la portata dell'emergenza sanitaria: a Bergamo si registrano 398 morti, contro i 91 di media, con un incremento del 294%; in alcuni comuni della Provincia, la mortalità è aumentata di oltre il 1500%. Nel Lodigiano si sono registrati un +390% di morti, 416 nei 21 giorni considerati. Anche in provincia di Brescia i decessi sono più che raddoppiati, da 166 a 315, a Codogno, invece, si sono registrati 87 decessi (+480%); incrementi di +200% si registrano nel Piacentino e nel Pesarese. Secondo uno studio dell'Istituto Cattaneo sui dati ISTAT appena citati, lo scarto tra morti nel periodo 2015-2019 tra il 21 febbraio e il 21 marzo e quello dello stesso periodo del 2020 sarebbe molto alto, 4825 contro 8740, il che significherebbe che il Coronavirus ha provocato la morte di almeno il doppio delle persone rispetto al dato della Protezione Civile. I numeri sono imponenti e non confrontabili con la normale influenza.

Il dato dell'ISTAT deve essere ovviamente analizzato, esso intanto non ci dice quali siano le morti per Covid-19 o quali per incidente stradale o malattia, ed è parziale in quanto non dà il quadro di tutti i circa 8mila comuni, ma si focalizza, come spiega lo stesso Istituto di Statistica, su quei comuni che "hanno avuto un incremento della mortalità pari ad almeno il 20 per cento". Insomma si tratta di un dato relativo alle zone che hanno avuto boom di mortalità e di per sé un metodo di selezione che altera in eccesso i dati. Ma che l'incremento sia avvenuto proprio nelle zone più colpite dal Covid-19 vorrà pur dire qualcosa. Se si guarda inoltre l'età delle morti vediamo che si tratta prevalentemente di soggetti anziani e maschi, il che confermerebbe ci sia una relazione con l'epidemia. Ma è particolarmente rilevante che l’incremento dei decessi è osservabile specificatamente dalla fine di febbraio e dalla prima settimana di marzo: rispetto ai morti del primo trimestre registrati nel 2018 e nel 2019, i primi mesi del 2020 avevano registrato valori inferiori, ma è proprio la brusca inversione di tendenza a confermare la relazione con l'epidemia di Covid-19, ma soprattutto l'impatto di essa sulla mortalità. Da marzo sono morte molte più persone e tutti gli indicatori schizzano verso l'alto. Peraltro in questi dati non sono stati conteggiati 10 giorni di marzo in cui come sappiamo l'epidemia si è allargata notevolmente. Al momento si tratta di dati parziali ed è impossibile stabilire quanto sia stato ampio lo scarto di mortalità tra gli anni scorsi e la situazione post-emergenza, ma è certo che ad un certo punto, quando si espande il contagio, si registra un ampio boom di mortalità. A certificarlo è anche il già citato FluNews che analizza la mortalità giornaliera totale (non solo dell'influenza) tra una popolazione over65, mostrando un boom di morti a marzo.

Il conteggio della Protezione Civile non sembra insomma essere esaustivo: alcuni pazienti, ad esempio, sfuggono al controllo, soprattutto se muoiono in casa perché non è possibile accoglierli in ospedale. Insomma è plausibile, come ci dice l'Istituto Cattaneo, che se si contano con il 'metodo' della Protezione Civile i morti sono molti di più dei 13mila accertati. Quel numero, come abbiamo detto, va però ridimensionato e messo in relazione alla tipologia delle persone colpite, non è escluso infatti che il virus possa agire come un terribile 'acceleratore' della morte di soggetti molto a rischio che quindi avrebbero potuto morire nel corso dell'anno ridimensionando il dato sulla mortalità 2020 nel lungo periodo.

Per concludere è lecito aspettarsi un conteggio maggiore dei morti rispetto a quello della Protezione Civile, ma questo dato può essere analizzato solo se messo in relazione alla mancata distinzione tra morti 'di' e 'con' Coronavirus, alla pesante sottostima dei contagiati, nonché alle rilevazioni che l'ISS fa sulle singole cartelle cliniche e quindi rispetto al fatto che il virus colpisce soggetti deboli che sono a rischio anche senza il contagio: solo questo insieme di fattori opposti (ancora in via di definizione) ci dà il reale quadro dell'emergenza sanitaria in corso, la quale però certifica senza se e senza ma un aumento esponenziale e drammatico della mortalità.

Bisogna a questo punto fare una precisazione dovuta: non è moralmente accoglibile, in ogni caso, vestire l'abito di spietati eugenetici del 'Reich italiano' e lasciar morire i propri padri o nonni perché 'deboli', anzi lo stato moderno si regge proprio sulla capacità di proteggere e tutelare i più deboli, requisito senza il quale il contratto sociale non ha senso di esistere. Il diritto alla vita appartiene a tutti, è un dovere etico, ma soprattutto un diritto politico. Quello che sta avvenendo è la morte di una generazione, un fatto senza precedenti che rimane una cicatrice nella storia di questo paese. Una morte collettiva affrontata in solitudine, nel letto di un ospedale affollato di gente che non si conosce, senza nemmeno per i parenti del conforto di quei rituali collettivi come il funerale o le condoglianze dei parenti che rendono quelle morti meno gravi. Sono morti assurde quelle che stiamo vivendo, inspiegabili, subdole perché colpiscono i più deboli, subdole perché quel virus è pericoloso e al tempo stesso fa finta di non esserlo. Ciò senza contare che complicazioni e morti si possono presentare anche tra più giovani come dimostrano casi noti. Sia quindi chiaro: è un'emergenza sanitaria immane, una tragedia collettiva.

Sepolcri imbiancati: i tagli alla Sanità

I dati forniti fin qua sono, lo ripetiamo, parziali. Ma in assenza di uno studio sanitario e statistico che ci spieghi cosa sta accadendo in Lombardia e in Italia (forse il virus è mutato?), una prima valutazione mette sotto la lente di ingrandimento il nostro sistema sanitario. Non sono un medico e non ho intenzioni di sparare sentenze che toccheranno a chi di competenza in futuro, ma è certo che i dati ci dicono che il Coronavirus non è una peste bubbonica e il sistema sanitario non è riuscito a reggere l'urto.

La possibilità di un'epidemia di tipo respiratorio a livello globale era possibile. Già nel 2015 Bill Gates avvertiva riguardo ad un virus che avrebbe ucciso milioni di persone (Qui il video), mentre ciò spiega le straordinarie coincidenze nella ormai nota puntata del TG Leonardo sulle reti Rai in cui si parlava di un "supervirus polmonare da pipistrelli" studiato in Cina: le coincidenze con il Covid-19 erano effettivamente incredibili e hanno suscitato persino le avventate arringhe di certi politici, prima che la comunità scientifica a smentire ogni rapporto tra quel virus e il Covid-19. In realtà il punto è che virus di tipo polmonare provenienti da pipistrelli e diffusosi in Cina erano già stati analizzati e quella di un virus simile era una possibilità concreta.

Ed in effetti questi due esempi, Bill Gates e il Tg Leonardo, non sono 'profezie', ma solo l'esposizione pubblica di una precisa indicazione proveniente dalla comunità scientifica già da tempo. I virologi da anni, soprattutto dopo la Sars e l'Aviaria del 2002-2003, avvertivano il mondo sulla possibilità di un'epidemia di tipo respiratorio. Nel 2003 l'OMS aveva consigliato un piano epidemiologico adeguato e ciò portò alla creazione di un 'Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale' dove si legge: "Dalla fine del 2003 è diventato più concreto e persistente il rischio di una pandemia influenzale. Per questo motivo l’OMS ha raccomandato a tutti i Paesi di mettere a punto un Piano Pandemico e di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate". Quel piano, che peraltro prescriveva strumenti specifici di protezione personale tra i sanitari, è stato aggiornato qualche anno fa, nel 2016, ma quelle linee guida in Italia, come altrove, sono state ignorate.

Il Governo ha messo in pratica fin dalla fine di dicembre, quando la Cina comunicò le polmoniti anomale, le indicazioni dell'OMS prendendo le misure che in quel momento sembravano adeguate ai dati in nostro possesso e in assenza di casi accertati. Si è poi gradualmente messo in campo le misure necessarie pur nella difficoltà istituzionale di mantenere un equilibrio tra una legislazione di emergenza e la limitazione delle libertà personali, un nodo difficile da sciogliere nelle democrazie compiute come la nostra che ha portato a mio avviso a ritardi in parte giustificabili: dopotutto in Cina, che non è certo un esempio di democrazia, ci sono voluti circa un mese e mezzo per attivare il lockdown. In Italia il primo caso accertato e non importato dalla Cina è del 21 febbraio, il lockdown nazionale del 9 marzo, poi via via provvedimenti più restrittivi. Si è proceduto con la "politica del passo avanti" e del "non divieto" ascoltando e cercando una mediazione tra parti sociali, quando forse servivano decisioni nette. Siamo stati soprattutto miopi di fronte ai casi anomali di polmonite registrati tra dicembre e gennaio, abbiamo alimentato la presunzione di dover ricercare il paziente zero, quando in realtà vi era un paziente 1, 2 e anche 3. Con il senno di poi è facile, ma a questo punto dell'emergenza possiamo ammettere di aver sbagliato nel crederci al riparo.

Eppure la colpa non è stata tanto quella di sottovalutare il Covid-19, un virus nuovo, che era lontano, e su cui dibattevano anche le autorità mediche, ma quella di non dare ai sanitari adeguati strumenti e assicurare loro strutture e macchinari per reggere l'urto di una emergenza sanitaria, sia  livello centrale che locale. La verità è che questo paese era sanitariamente impreparato ad affrontare una aggressiva polmonite, non ne aveva i mezzi: senza strumenti di protezione idonei abbiamo esposto i sanitari al contagio, costantemente a secco di personale, senza respiratori e strumentazione medica adeguata, in affanno nelle terapie intensive, e anche senza spazi e strutture a disposizione.

Mentre si erige statue ai nostri "eroi" bisogna allora avere il buonsenso di dirci che qualcosa non è andato: tutto ciò è anche il risultato di almeno un decennio di smantellamento del nostro SSN di cui la politica è colpevole. Per la Commissione Europea spendiamo circa il 10% in meno della media europea. L'OCSE ha stabilito che l'Italia nel 2017 spendeva il 6,7% del PIL in Sanità, mentre il Regno Unito il 7,7%, Olanda, Danimarca e Francia oltre l'8,5%, la Germania il 9,5%: tradotto significa che mentre in Italia si spende circa 2.600 euro a persona, in Germania se ne spende 4.800. Sempre l'OCSE segnala che nel periodo 2002-2017 l'Italia ha incrementato la spesa pubblica in Sanità del +0,9%, ma meno di altri paesi, infatti Francia, Germania lo hanno fatto del +1,9%. Inoltre dal 2010 al 2017 abbiamo tagliato lo 0,4% del PIL di spesa in Sanità, passando da tagli di Governi di diversi colori. Per la Fondazione Gimbe il SSN "ha perso negli ultimi dieci anni 37 miliardi di euro", di cui circa 25 miliardi nel 2010-2015 per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie ed oltre 12 miliardi nel 2015-2019, specificando che se in termini assoluti si è avuto un incremento dello 0,9% della spesa (circa 8 miliardi), questo è stato persino inferiore all'inflazione annua dello 1,07%. Quindi se è vero che la spesa sanitaria è passata da 71,3 miliardi di euro nel 2001 a 114,5 miliardi nel 2019, l'incremento nominale non ha tenuto il passo dei prezzi. Ancora la Fondazione Gimbe ci dice che nel periodo 2009-2018 l'incremento percentuale della spesa sanitaria pubblica si è attestato al 10%, rispetto a una media del 37%.

Tutto ciò ha effetti concreti: secondo l'Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale nel 1998 avevamo 1381 istituti di cura, oggi sono 1.000. L'Italia ha un numero superiore alla media di medici, ma sono in calo i medici che lavorano negli ospedali e la media di età è tra le più alte d'Europa. Il nostro paese ha invece 5,8 infermieri ogni 1000 abitanti rispetto agli 8,5 della media europea. Secondo la ragioneria dello Stato nel periodo 2009-2017 si sono persi oltre 8.000 medici e 13mila infermieri. Per la Corte dei Conti nel periodo 2009-2017 la spesa per le risorse umane si contrae del 6%, mentre il numero dei dipendenti del -5,3% (da 695.700 a 658.700). A tutto ciò vanno segnalati il congelamento degli stipendi che ha ridotto la spesa di circa 2 miliardi. Infine bisogna segnalare un crescente trend che vede trasferire risorse pubbliche in mano ai privati: nel Rapporto Censis-Rbm Assicurazione Salute si legge che 32 miliardi di euro sono stati pagati alla Sanità privata di tasca degli italiani, circa 500 euro pro-capite, mentre tra il 2013 ed il 2016 si è registrato un incremento costante del +4,2%. Ed è ironico, se non fosse tragico, che la Regione che si è fatta capofila della privatizzazione della sanità sia quella che soffre di più l'emergenza Covid-19; dopotutto la sanità privata non crea terapie intensive, sono molto più redditizie le TAC.

Da un punto di vista strutturale la rivista Intensive Care Medicine, nel 2012, certificava che l'Italia aveva 12,5 posti di terapia intensiva ogni 100mila abitanti contro i 29 della Germania, mentre l'OMS abbiamo 64mila posti letto per pazienti acuti, ossia 272 ogni 100mila abitanti, circa il 30% in meno rispetto agli anni Ottanta. Per quanto riguarda i posti letto la media europea per l'Ocse è di 5 ogni 1000 abitanti, l'Italia nel 2017 ne aveva 3,6, mentre nel 1998 erano 5,8. Nel Rapporto Sanità del 2018, si legge che nel 1981 si avevano 461mila posti letto, nel 2016 solo 210mila. I posti letto in mano al privato sono passati da meno del 15% nel 2001 a più del 20% nel 2018 (in alcune regioni si arriva a oltre il 30%), con una brusca diminuzione generale dell'ospedalizzazione. Per quanto riguarda i malati acuti secondo l'Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale nel 1980 avevamo 922 posti ogni 100mila abitanti, oggi 275, il dato più basso di tutti i paesi europei. Per concludere andrebbe evidenziato lo stato di degrado e l'età di certe strutture sanitarie che soprattutto in alcune parti del paese versano in condizioni indecorose.

Tutti questi numeri servono a tracciare un quadro della situazione in cui l'Italia si è trovata a fronteggiare un'epidemia annunciata. Sia chiaro: probabilmente nessun sistema sanitario poteva reggere l'urto senza scossoni, eppure altrove la situazione è stata migliore, in primis la Germania che non a caso sta avendo un numero basso di mortalità. Non è possibile adesso fare una stima di quante persone sarebbero potute essere salvate se il nostro sistema sanitario fosse stato valorizzato negli anni, ma è certo che qualcosa poteva essere fatto. Sono ormai note le immagini delle terapie intensive al collasso, dei turni massacranti del personale sanitario, dei pazienti che non possono essere attaccati a respiratori che non ci sono, oppure che vengono ospedalizzati nelle ambulanze nei piazzali che vengono però tolte alla normale attività di soccorso; è tristemente nota invece la denuncia del sindaco di Bergamo secondo cui molte persone vengono lasciate a casa e qui muoiono, denuncia che fa luce sulla inadeguata capacità di accoglienza in ospedale che certamente incide sulla mortalità, perché è ovvio che le cure ricevute in una struttura sanitaria sono più efficaci di quelle a casa; sono quotidiane le denunce di mancanza di strutture di contenimento e di attrezzature, nonché di direttive poco chiare sull'accesso dei pazienti; la mancanza di respiratori è di fatto un aspetto fondamentale perché determina la sopravvivenza dei pazienti in caso di polmoniti acute; senza parlare dell'incuria con cui è stata affrontata l'emergenza dal punto di vista dei DPI forniti inizialmente con notevole ritardo e con criteri molto restrittivi, senza attuare indicazioni precise e nette negli ospedali, mentre a due mesi dall'epidemia parte del personale sanitario continua a non averli, altri li hanno, ma non sono quelle previste dalla normativa; infine è discutibile la politica dei tamponi, appena accennata, costretta all'impotenza dalla mancanza di laboratori, personale e reagenti: data la diffusione del virus forse proprio i tamponi potevano essere un utilissimo strumento.

In questo momento i posti di terapia intensiva sono stati notevolmente aumentati, si è permesso l'utilizzo più o meno forzato di strutture private, Regioni e Governo hanno messo fondi e si stanno impegnando per fronteggiare l'emergenza, ma non si risolve tutto con un batter di ciglia. Insomma la mancanza di cure, capacità di soccorso, respiratori e la facilità di contagio nelle strutture sanitarie, in primis quelle di Codogno, sono causa dei nostri mali e vengono da lontano. Presentare il bollettino di guerra quotidiano, gonfiato, incompleto e parziale, non deve fare del Coronavirus il capo espiatorio di una colpa di Stato. Data anche la tipologia dei morti, la maggior parte soggetti deboli, la qualità delle cure offerte ha certamente fatto la differenza.

Insomma i nostri morti ci insegnino qualcosa, la politica è chiamata a fare un'attenta analisi e a non a vestire i panni di Ponzio Pilato. Mentre si copre con un velo di retorica il lavoro del personale sanitario definendolo "eroe" in ogni salsa, lo si lascia a combattere in trincea per poi costruire statue al milite ignoto. Guai a noi a costruire sepolcri imbiancati.

Giovanni Mennillo

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