Commemorazione di tutti i fedeli defunti, l'omelia del cardinale Betori

Giuseppe Betori

Omelia

San Paolo, nella lettera ai Romani, per parlare della nostra salvezza e della nostra riconciliazione con Dio, muove dalla morte di Cristo. È la morte di Gesù che deve illuminare la morte di ogni uomo, per molti fonte di angoscia e di disperazione, fino a provocarla per non doverla subire, come vorrebbero i sostenitori dell’eutanasia. In tal senso colpisce l’insistenza dell’apostolo nel ribadire che la morte di Gesù non fu un incidente che ne interruppe la missione, una smentita del progetto a cui si era votato. La morte di Gesù non è una morte “nonostante”, nonostante la sua voglia di vita e gli orizzonti di bene e di pace che egli veniva ad aprire agli uomini. Non è neppure una morte cercata per mettere fine a un progetto impossibile. La morte di Gesù, ci dice san Paolo, è invece il compimento di una vita come dono per l’umanità. Una morte “per”: per gli empi, per noi, per la giustificazione e la salvezza dei peccatori.

La disperazione e l’angoscia di fronte alla morte si insinuano nell’animo di chi pensa la morte come un atto estraneo alla vita, qualcosa al di fuori di essa, un evento che la chiude e quindi l’annulla. Ma la morte non nega la vita, bensì la compie. Per questo il senso della morte è svelato dal significato che prima ha assunto la vita e verso cui si è orientata.

Tutto ciò è evidente in Gesù: completamente votato ai fratelli e alla loro salvezza, egli non abbandona con la morte questa volontà che è all’origine della sua esistenza nel tempo. Anzi, è la morte a svelare quanto profonda sia questa sua dedizione, quanto assoluto sia stato e continui a essere il suo amore per l’umanità, un’umanità peccatrice, amata proprio per la sua debolezza e fragilità: «Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6).

Morendo Gesù svela il carattere assoluto del suo amore e dà senso alla morte come un suo estremo e ultimo dono ai fratelli. Tutto il contrario

di quanto purtroppo spesso siamo costretti a registrare attorno a noi, dove impera l’orrore della morte, ma anche l’illusione di poterla in qualche modo esorcizzare, magari con uno sberleffo, ovvero con il miraggio di diventarne i padroni, o ancora di poterla infliggere agli altri, soprattutto ai più deboli, svelando il limite del nostro gracile amore.

Questi interrogativi si sono fatti più vicini in questo tempo di pandemia, in cui la morte, da evento privato, accuratamente occultato nel dibattito pubblico, è diventato fatto pubblico, misurato giorno dopo giorno nella sua incidenza percentuale sulla popolazione, fenomeno con cui doversi inevitabilmente misurare. Perché, se è vero che non poteva mancare lo sforzo di tutti per contenere e debellare la pandemia, altrettanto evidente era che essa aveva e ha una dimensione di ineluttabilità che non può prescindere per non pochi da un esito fatale.

C’è da dire che molti, non appena è stato possibile, hanno cercato di rimuovere il brivido che li ha scossi di fronte alle immagini delle colonne degli autocarri militari che nella primavera scorsa portavano via le bare dai territori maggiormente colpiti. Meno facile farlo è stato per quanti sono stati colpiti dal lutto nei loro affetti e hanno sentito la mancanza di un accompagnamento nel dolore con i riti di commiato. E c’è poi, diffusa, la visione prevalente nella comunicazione sociale, che guarda al mondo della scienza con attese taumaturgiche, affidando a una cura, a un vaccino, a un lockdown il potere di salvare dalla morte, dimenticando che da sorella morte, come avvertiva san Francesco, «nullu homo vivente po’ skappare». Tra le tante cose che questa pandemia sembra volerci insegnare, accanto a quella, fondamentale, della reciproca dipendenza nel genere umano, al primo posto va proprio collocato questo richiamo alla inesorabile fragilità della condizione umana.

Ma perché il limite della fragilità non sia vissuto come una condanna, come l’ingiustizia di un dio arbitrario che ha voluto negarci l’immortalità, abbiamo bisogno di dare un senso alla morte che non sia solo di compimento ma anche di apertura. Ed è questa la seconda lezione che apprendiamo da Gesù.

Gesù non solo insegna a integrare vita e morte in un progetto d’amore, ma offre una prospettiva di superamento della morte. Egli, risorto, ha oltrepassato la soglia della morte per entrare nella vita nuova e questo

fatto costituisce, come ricorda l’apostolo Paolo, il fondamento di una «speranza che non delude» (Rm 5,5), perché se la sua morte ci ha riconciliati con Dio tanto più la sua vita porta a salvezza eterna la nostra esistenza di creature: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10).

C’è dunque una ragione per cui il cristiano può superare la paura e l’angoscia della morte: come lui e prima di lui quella soglia è stata superata per noi da Cristo. Attraversandola con la potenza del suo amore, il dono di sé stesso fino alla fine per noi empi e peccatori, il Figlio di Dio fatto uomo ha tolto alla morte ogni potere, e ne ha fatto il passaggio verso la vera vita, verso il cammino in cui egli ci ha preceduti, «primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29), «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18). L’ira della morte non ha più potere su di noi, perché il Padre ci ha riconciliati a sé nel sangue del Figlio.

Nella pagina del vangelo di Giovanni tutto questo diventa rivelazione e promessa di Gesù per i suoi discepoli. È questa la volontà del Padre, che non vuole che l’umanità resti preda di quell’esperienza della morte che, come separazione da Dio fonte della vita, è stata introdotta nel mondo dal peccato. Il Padre non accetta che noi ci perdiamo nel nulla, ma vuole accoglierci nel suo amore e farci uscire vittoriosi dalla morte, per condurci alla vita eterna nell’ultimo giorno.

Questa fede sorregge la nostra preghiera in questo momento, ci pone in comunione con i nostri morti, che sappiamo non abbandonati al nulla, ma affidati alle mani misericordiose di Dio, per la mediazione di Cristo e della Chiesa. Pregare per i nostri morti e con loro è espressione della saldezza della fede nella risurrezione, la sola che può dare speranza alla nostra vita.

Giuseppe card. Betori

Fonte: Diocesi di Firenze - Ufficio Stampa



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