Nello studio di Tommaso Salvini

In via Gino Capponi a Firenze, tra i viali e piazza SS. Annunziata, c’è una lapide messa lì nel 1920, a cinque anni dalla morte di Tommaso Salvini, uno dei più grandi attori dell’800, un patriota che combatté con Garibaldi. La lapide lo ricorda, dicendo come “l’Alfieri e lo Shakespeare (lo) ebbero sulla scena mirabile interprete”, poi più in là: “spenta l’eco dei plausi fuggevoli dura del grande artista la fama”, anche se oggi in molti si potrebbero chiedere chi fosse l’uomo ricordato nel marmo.

Questo sebbene molti dei suoi costumi di scena, i copioni, le fotografie, il suo archivio epistolare, la biblioteca e soprattutto il suo studio siano gelosamente conservati al Museo Biblioteca dell’Attore di Genova.

Negli anni in cui io ho lavorato al Museo, quando si trovava ancora dentro Villetta Serra, su una collinetta che si alza sopra a via XX settembre, a pochi metri da piazza Corvetto, a me è capitato in più occasioni di fermarmi in quell’ambiente e a volte anche di sedermi lì a studiare. Ci sono (e le alleghiamo) le foto che raccontano quella stanza che si trovava al primo piano della Villetta, forse meglio che le parole. Si tratta di una ambiente borghese, simile – come del resto la casa fiorentina di Salvini – a infiniti altri luoghi, se non fosse per qualche traccia del suo lavoro in teatro, qualche immagine, in pose parecchio impostate, e soprattutto una panoplia piena di armi di scena. C’era poi una piccola scrivania, alcuni divani e qualche poltrona, sedie, una grande libreria chiusa dentro un mobile a vetri, due mobili archivio sui quali erano posati i busti di Salvini e forse di sua moglie, poi c’era, davvero imponente, un grande specchio, forse la cosa più significativa dell’intera stanza. Uno specchio che credo fosse di lavoro, come il trofeo di armi lì davanti, serviva all’attore per guardarsi nell’assumere pose, più o meno tragiche.

Mi immaginavo il grande attore che non aveva saputo rinunciare ai suoi spadoni. Sorridevo guardandomi intorno, pensando a Salvini anziano (era nato a Milano nel 1829): un imponente bambinone che prendeva una delle sue armi e cominciava a giocare al teatro, osservandosi nel grande specchio.

Non è naturalmente questo che volevo scrivere, o comunque non solo questo. Perché Salvini e altri grandi attori dell’800, come Ernesto Rossi o Adelaide Ristori, sono alla base della rivoluzione teatrale del secolo successivo, iniziata al Teatro d’Arte di Mosca, in particolare da un teorico e regista come Kostantin Stanislavskij.

Tra l’altro questo lavoro anche pedagogico, influenzò direttamente i più grandi attori americani (questo attraverso il lavoro di Michail Cechov, nipote del grande drammaturgo russo e soprattutto dell’Actor’s Sutdio di Elia Kazan e Lee Strasberg. Attori come Gregory Peck o Paul Newman, Gary Cooper, Robert Taylor, Yul Brinner, Anthony Queen, Ingrid Bergman, ma anche Marlon Brando e James Dean, fino a Robert De Niro e Al Pacino, venivano tutti da lì, dall’eredità di Stanislavskij e prima di lui di Salvini & Company. Non è certo un caso se nella mostra su Salvini, che nel 2011 il Museo Biblioteca dell’Attore allestì al Palazzo Ducale di Genova, ci fosse proprio un Al Pacino ad altezza d’uomo, che faceva la sua bella figura, insieme alle tante pose tragiche dello stesso Salvini.

Che cosa avevano voluto dire i curatori, cioè Eugenio Buonaccorsi, in collaborazione con Gian Domenico Ricaldone? Semplicemente che all’origine di tutto c’erano gli spettacoli che i grandi attori italiani portarono in giro per il mondo, nel caso specifico un “Otello” che Stanislavkij poté vedere nel 1891, restandone addirittura folgorato e costruendo su quella lezione gran parte del suo “metodo Stanislavkij”, che tanta influenza avrebbe avuto su tutto il teatro del Novecento, e naturalmente anche sul cinema.

La mostra, che io ho visto - in occasione della riproposta, al Teatro della Pergola di Firenze (2012), un luogo prestigioso, anche se con spazi meno importanti di quelli che gli erano stati destinati nell’allestimento originale -, si snodava attraverso le immagini di questo teatro, con l’imponenza e anche con una serie di artifici retorici che potrebbero di primo acchito, distanziarlo dalla contemporaneità.

È in fondo quello che nota già Stanislavskij, quando vede Salvini in scena, il primo impatto è disastroso, un costume troppo sgargiante, che lo stringe su un corpo appesantito. Ma dopo qualche attimo l’attore conquista il suo pubblico, la sua capacità interpretativa è stupefacente, in una stessa scena, ad esempio quella dell’uccisione di Jago o del sacrificio imposto a Desdemona, può passare dalla rabbia folle, alla disperazione, fino a pose di grande dignità umana, ma anche attorale.

Un grandissimo, che Stanislavskij studierà a fondo, dando vita, a partire dalla sua interpretazione, ad alcuni significativi capitoli nei suoi libri.

Mirella Schino, una delle più recenti e soprattutto accorte studiose di Salvini (ad esempio in un saggio sub vocem del Dizionario Biografico degli Italiani, ma anche in volumi specifici), ben racconta queste scene. “A differenza dell’Otello di Rossi – scrive la Schino -, passionale e furioso fin dalle prime battute, quello di Salvini era nobile, regale, profondamente amoroso, dall’ira lenta e progressiva. Con alcuni scatti, però, di violenza pura, come quando abbatteva Jago con gesto possente, per poi rialzarlo con una sola mano, come una bambola di stracci. O come quando, nell’ultimo atto, afferrava Desdemona per i capelli, torcendole la testa, e la scaraventava di peso sul letto nascosto da cortine agli occhi del pubblico. Da quel letto, dopo averla uccisa, si affacciava, al richiamo di Emilia, come una bestia dalla tana, per poi riprendere subito dopo il suo contegno nobile, straziato dal dolore”.

La Schino sostiene che gli studi sul grande attore dell’800 sono ancora allo stadio iniziale, segnalando alcune possibili strade di ricerca, in particolare – come sempre – nuovi studi sui documenti, che per fortuna non sono pochi, anche se ci manca la possibilità di “vedere” l’attore nella sua reale performance e dobbiamo accontentarci dei resoconti. Delle parole cioè di cronisti e critici, ma anche delle memorie stesse degli attori (in genere non troppo attendibili), di registi, come Stanislavskij, ma anche di grandi musicisti, come Giuseppe Verdi, anche lui debitore per la sua versione operistica.

In questo senso esiste, almeno per “Otello”, una vera e propria ricostruzione, gesto per gesto, dovuta ad uno spettatore, l’inglese Edward Tuckerman Mason, con lo stesso Salvini che ebbe modo di rivederne addirittura la stesura, dimostrando - se ce ne fosse bisogno - di quanto il pubblico fosse interessato al lavoro di questi attori, già in qualche modo “divinizzati”, come quelli che li avrebbero di li a poco seguiti, i grandi protagonisti della musica o del cinema.

A Genova è ad esempio conservato anche l’immenso archivio di Adelaide Ristori (avremo modo di parlarne), anche lei adorata da principi e imperatori, tra l’altro salutata da visite di re, nella sua casa di Roma, quella di suo marito, il Marchese Del Grillo, non lontana dal Teatro Valle.

Ancora la Schino scrive che “Nonostante la fama, internazionale e duratura, Salvini è probabilmente uno degli attori di cui oggi è più difficile comprendere la grandezza, perché proprio i suoi punti di forza, per esempio la grandiosità e l’armonia dei gesti, possono facilmente apparire come enfasi o artificiosità. In particolare potrebbero ingannare le testimonianze sul modo in cui l’attore usava la voce. Il teatro dell’Ottocento era pieno di ombre, per le sue tipologie di illuminazione, e la voce era uno strumento di primaria importanza. Sappiamo da Luigi Rasi come Salvini fosse in grado di operare passaggi virtuosistici da intonazioni altissime a vocalità basse e rauche, come certe sue ‘volate’ fossero state paragonate alla voce dei grandi tenori. Rasi apparteneva a una generazione successiva, che si autodefiniva con orgoglio ‘moderna’. Ammirava l’artista tanto più vecchio e più grande di lui, lo definì nei suoi scritti un «Michelangelo della scena», o «Giove tonante». Tuttavia, queste stesse lodi contribuirono involontariamente a trasmettere di Salvini un’immagine deformata, retorica”.

Cronaca di Andrea Mancini



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