Nello studio di Ascanio, Marco Dell'Agnello

Ascanio, si chiama in realtà Marco Dell’Agnello. Siamo andati a trovarlo su suggerimento di due critici di valore, il primo, Riccardo Ferrucci, che lo ha invitato ad una personale, allestita nel 2019 in vari centri del Portogallo, grazie anche al Festival Sete Sòis Sete Luas; l’altro, Luca Nannipieri, che sta seguendo Ascanio nella utopica realizzazione di una specie di cattedrale, che si snoda anche verso il cielo e che affascina il visitatore, quando scopre che è costruita con materiali di assoluto recupero. Questo artista sarebbe certo piaciuto a Jean Dubuffet, grande cultore dell’Art Brut, di un’arte che nasce spontanea, senza alcuna pretesa. Ascanio, infatti, opera nella sua solitudine, in una Toscana di poco fascino, come è quella della piana di Pisa, realizzando un edificio fantastico, costruito con materiali di scarto, oggetti riciclati, rivisti e reinventati, un’opera di forte impatto, che ci lascia totalmente avvinti, con le guglie, le croci, gli stili che si intrecciano, una sorta di minima Basilica di San Marco, che a Venezia, porta l’arte islamica in una chiesa rigidamente cattolica.

Luca Nannipieri, apprezzato critico, ha preso a visitare questo monumento all’immaginazione, per vederne gli sviluppi, le circonvoluzioni espressive. Il lavoro è partito da un vecchio box di lamiera, forse “una tettoia sostenuta da quattro pali di legno traballante” dove l’artista ha trascorso gli anni dell’adolescenza, è cresciuto all’ombra di “quelle lamiere contorte e rugginose”. In questo luogo, che aveva contenuto forse un‘auto, si è come avvolta una materia rigida, che potrebbe essere di natura plastica, forse polistirolo. Da lì partono - chiedendo solo di poter crescere, espandersi - i rami di una specie di albero, ricchi di intrecci e di nodi, con alla sommità, madonne e piccoli crocifissi. L’impressione che maturiamo è quella di una sorta di pianta che ci avvolge e coinvolge. Dentro questi elementi, se non ne capiamo il percorso e l’intenzione, ci sentiamo come prigionieri, ma ecco che la storia si dipana, prende strade che paiono impossibili, in particolare quando l’artista comincia a evocarci le parole dell’amata: di una madre compagna e amica. La vediamo, la sentiamo nella recita che improvvisa apposta per noi. “Fa freddo… sì fa freddo Cara Mamma, ma il vero freddo, il gelo, quello vero, insistente, ostinato, entrerà dentro di me, quando Tu non ci sarai più. Solo allora avrò veramente freddo”.

Nella logorrea di Ascanio, nel suo parlare ininterrotto, la madre è sempre presente, la vediamo anche nelle opere più vecchie, quelle avvolte in teli di nylon, una specie di pellicola trasparente, che forse le preserva dall’umidità, ma che le fa diventare ancora più distanti, come se ci fosse un possibile diaframma, che le rende lontane da una vera percezione critica. Certo non è semplice applicare naturali canoni estetici a quest’artista, sebbene suggeriremmo di esporre i suoi lavori a Losanna, al Museo che Dubuffet ha dedicato a queste figure fuori dagli schemi. Come ha ben detto Riccardo Ferrucci, tra i primi ad aver scoperto l’espressività legata a Dell’Agnello: “Fuori dagli schemi e fuori dal mercato, Ascanio possiede un suo mondo poetico e riesce a realizzare opere che hanno una loro grandezza e rimangono impresse negli occhi e nel cuore dello spettatore. É una persona che ha molte storie da raccontare e sprigiona il fascino della poesia autentica. É sicuramente un autore che vale la pena di conoscere ed i suoi lavori, da autodidatta, non assomigliano a quelli di nessun altro e hanno una forza interiore che è difficile incontrare nella pittura contemporanea. La morte della madre l’ha segnato profondamente e soltanto in questa capanna, in un campo alla periferia di Ponsacco, riesce a trovare la sua magica armonia ed a creare delle opere che hanno dentro di sé mille ricordi e sollecitazioni diverse”.

Ascanio ci mostra i suoi lavori, ce ne suggerisce un utilizzo, che risponde a ben altro, che a motivazioni puramente estetiche: “con una luce dietro, questo colore si esalta, diventa più potente” e ancora: “quest’opera ha bisogno di un raggio di sole, senza è bella a metà, come se fosse morta!”.

Siamo arrivati in macchina, mi accompagna Ferrucci. Lasciamo l’auto lì accanto, davanti a quella che è addirittura una scuola di Circo, con il suo piccolo chapiteau. Vediamo una chiesa, una casa – la canonica, che ha ospitato tutta l’infanzia del pittore - poi ancora un brulicare di croci, qualcosa che sembra una stazione aliena. Le braccia della creatura partono dalla baracca e arrivano alla casa, ci si attaccano come un’edera strisciante, che si abbarbica e si estende, senza essere - come la tradizione vorrebbe – una pianta parassita. L’edera, così come il lavoro di Ascanio, rappresenta il trasporto amoroso, quello che spinge gli amanti ad unirsi, dove la donna è rappresentata appunto, dall’amata madre, segno primo di ogni suo avvicinamento all’arte.

Anche in questo senso don Maurizio Gronchi, sacerdote e amico, ha raccontato Ascanio con parole importanti: “Scarti, materiale di recupero, roba in disuso diventano cose preziose per chi non crede che il mondo cominci adesso (…). I corpi offesi dalla miseria e dall’esclusione, sfigurati dalla malattia e dalla vecchiaia, segnati dalle ferite della vita e tornati alla polvere saranno preziosi solo agli occhi amorosi di Dio, che li farà rivivere di nuovo, altrove, senza fine. Come ha scritto papa Francesco: ‘con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte’”.

Ascanio continua il suo racconto, ci dice come è iniziato per lui il lavoro d’artista, in quello stesso luogo dov’è oggi, e dove ogni giorno, d’estate o d’inverno, lui lavora: “Un’opera d’arte segue l’altra… un pensiero… una scultura prende vita… un ricordo… una sedia vuota… uno sguardo che manca… avanti, tutto fa parte della vita. Poi una voce… È la mia Mamma. Si affaccia dalla scala che sovrasta la tettoia, si sporge, mi guarda pensierosa, scuote la testa e poi la solita frase di sempre: - Vieni a casa, se resti lì ti ammali… fa freddo!”.

Cronaca di Andrea Mancini



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