
La mozione mira a ricordare il giovane milanese, iscritto al Fronte della Gioventù, ucciso nel 1975. FdI sottolinea che la memoria di Ramelli non deve dividere, ma unire la città nel rifiuto della violenza
È destinata a suscitare polemiche, memorie divise e dibattiti storici la mozione presentata da Fratelli d’Italia Empoli, con cui si chiede l’intitolazione di un luogo pubblico a Sergio Ramelli, giovane milanese ucciso nel 1975 a soli diciannove anni, iscritto al Fronte della Gioventù.
Per FdI, Ramelli era "colpevole soltanto di avere espresso idee di destra in un tempo in cui, in Italia, anche un pensiero poteva diventare motivo di condanna". La mozione, spiegano, "nasce per riconciliare e restituire alla storia un senso umano che la violenza ha strappato via. Oggi non deve più morire nessuno per un’idea".
Da qui l’invito alla città di Empoli a farsi promotore di "maturità democratica e pietà civile": "Intitolare un luogo a Sergio Ramelli sarebbe un modo per dire ai giovani di oggi che la politica non è guerra, ma ricerca comune del bene. Si può discutere, dissentire, anche accendersi - ma mai odiare".
La nota integrale di Fratelli d'Italia
"Lunedì 27 ottobre, in Consiglio Comunale a Empoli, come gruppo consiliare Fratelli d’Italia presenteremo una mozione per l’intitolazione di un luogo pubblico a Sergio Ramelli, giovane milanese ucciso nel 1975, a soli diciannove anni, iscritto al Fronte della Gioventù, colpevole soltanto di avere espresso idee di destra in un tempo in cui, in Italia, anche un pensiero poteva diventare motivo di condanna a morte.
Quasi mezzo secolo dopo, ricordare Sergio Ramelli non è un atto politico di parte, ma un atto di civiltà. Lo ha scritto con parole limpide e coraggiose Walter Veltroni il 16 febbraio 2020 sul Corriere della Sera, in un articolo dal titolo “Sergio Ramelli, il ragazzo con il Ciao che venne ucciso perché fascista”, che tutti dovremmo leggere e meditare.
Scrive Veltroni:”In quegli anni di odio, che divisero i ragazzi di una generazione, Ramelli - con il suo Ciao e i suoi capelli lunghi - venne isolato nella sua scuola, perseguitato, ucciso a colpi di chiave inglese. Gli assassini scrissero alla madre: "Pensava in modo diverso da noi…"
Ramelli era uno studente come tanti altri. Scrisse un tema sul terrorismo delle Brigate Rosse, sull’assassinio di due militanti del MSI a Padova compiuto nel 1974. Quel foglio divenne la sua condanna: fu dileggiato, isolato, minacciato, fino al giorno in cui venne aggredito sotto casa con una chiave inglese. Lo aggrediscono in due, quel 13 marzo del 1975, colpendolo al capo con le famigerate Hazet 36, lunghe 45 cm e del peso di circa 3 kg, con violenza, ripetutamente. Morì dopo quarantasette giorni di agonia. Non aveva mai scelto né la violenza, né l’odio: aveva solo scelto di pensare, di partecipare, di credere nella libertà delle idee.
Erano anni drammatici, gli anni di piombo, in cui l’Italia visse un’epidemia d’odio. Le parole furono sostituite dalle spranghe, le idee dai proiettili, le passioni civili da un furore ideologico che divorava tutto. Ragazzi di destra e di sinistra - nomi oggi scolpiti nella memoria nazionale — finirono uccisi per il solo fatto di appartenere a un “campo”. Ragazzi come Sergio Ramelli, Paolo Di Nella, Carlo Falvella, Fausto Tinelli, Lorenzo “Iaio” Iannucci, Valerio Verbano. Giovani che, pur divisi in vita, dovrebbero oggi essere uniti nella memoria.
Quella di Ramelli è una storia che non parla solo alla destra. Parla all’Italia intera. Parla della fragilità di una democrazia che smarrisce il senso dell’umanità, del rischio sempre presente di ridurre l’altro a un nemico, dell’abisso in cui precipita un Paese quando l’ideologia sostituisce la pietà.
Eppure, anche in mezzo a tanto odio, ci furono gesti che lasciarono intravedere una luce. Come quello - ricordato da Veltroni - del prete partigiano che, vedendo i fiori e le foto di Sergio, disse: "Non ho liberato l’Italia per vedere queste porcherie".
Quelle parole, venute da un uomo che aveva combattuto per la libertà, dicono più di molti discorsi: la libertà non appartiene a una parte, ma a chi riconosce l’umanità anche nel volto dell’altro.
Per questo, la nostra mozione non nasce per rivendicare, ma per riconciliare. Non per riscrivere la storia, ma per restituirle il senso umano che la violenza ha strappato via. Dedicare a Empoli un luogo a Sergio Ramelli significa affermare, oggi, che nessuno deve più morire per un’idea. Significa dire che la memoria non può essere selettiva, che la compassione non può avere colore, che la politica deve tornare ad essere dialogo, confronto, rispetto reciproco.
La memoria condivisa, o almeno accettata, è la base di una democrazia matura. È il contrario dell’oblio e dell’odio. È la consapevolezza che ogni vita spezzata da fanatismo e violenza - da qualunque parte - appartiene alla stessa tragedia nazionale.
Empoli può dare un segnale alto di maturità democratica e pietà civile: intitolare un luogo a Sergio Ramelli sarebbe un modo per dire ai giovani di oggi che la politica non è guerra, ma ricerca comune del bene. Che si può discutere, dissentire, anche accendersi - ma mai odiare.
La memoria di Sergio Ramelli non divide, unisce. Unisce i vivi nel rifiuto della violenza, unisce le generazioni nel rispetto della libertà, unisce un Paese nel ricordo di chi è morto per avere pensato.
Sergio Ramelli non deve essere dimenticato. È stato ucciso da suoi coetanei, militanti della sinistra extraparlamentare. Non per una colpa, ma per un’opinione. E la memoria di quella violenza non appartiene a una parte, ma a tutta la nostra comunità nazionale.
Solo così quel ragazzo col Ciao e con i capelli lunghi potrà continuare a vivere - non come simbolo di parte, ma come monito di umanità e di pace civile, perché, usando sempre le parole di Walter Veltroni: "Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. Tutti, tutti dormono sulla collina".
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