L'omelia dell'arcivescovo Gambelli per Natale: "Tutti possiamo fare qualcosa per costruire la pace"

L'arcivescovo Gherardo Gambelli

Si è celebrata la Santa Messa di Natale. A Firenze molte persone hanno ascoltato l'omelia dell'Arcivescovo Gambelli. Vi riproponiamo di seguito le sue parole e il suo discorso integrale.

«È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,11-13).

Cari fratelli e sorelle, San Paolo in questo testo della lettera a Tito ci rivela il vero senso della celebrazione del Natale. Noi facciamo memoria della prima venuta del Signore Gesù nella storia per mantenerci vigilanti e fiduciosi nella attesa del suo avvento nel tempo e alla fine della storia.

Nella pala d’altare opera del Beato Angelico, proveniente dalla Chiesa di San Francesco in Montecarlo a San Giovanni Valdarno, rappresentante l’Annunciazione, possiamo osservare una frase scritta in latino sul bordo della veste della Vergine Maria: Donec veniat (“finché egli venga”). Si tratta della citazione di un celebre testo della Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo Apostolo: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga». (1 Cor 11,26). Maria è contemplata in quest’opera del Beato Angelico come immagine della Chiesa che accoglie Gesù, lo dona al mondo e lo attende nella speranza.

San Paolo ci ricorda che chi apre il cuore alla grazia della venuta del Signore viene educato a rinnegare l’empietà e i desideri mondani. È necessario lasciarsi affascinare dalla bellezza del Vangelo per avere la forza di rinnegare tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia (Eb 12,1).

Il verbo rinnegare fa venire in mente l’espressione verbale più cruda fra quelle presenti nella Costituzione italiana, non a caso utilizzata a proposito della guerra: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Abbiamo iniziato il tempo di Avvento in preparazione alla festa del Natale con una Veglia diocesana qui in Cattedrale, meditando un testo molto attuale del profeta Geremia: «Perché dal piccolo al grande tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna. Curano alla leggera la ferita del mio popolo, dicendo: "Pace, pace!", ma pace non c'è. Dovrebbero vergognarsi dei loro atti abominevoli, ma non si vergognano affatto, non sanno neppure arrossire» (Ger 6,13-15). C’è una sana vergogna che possiamo chiedere questa notte come dono al Signore per aver trattato alla leggera le situazioni di crisi del nostro mondo, per esserci abituati a pensare alla guerra inevitabile, e a vedere di conseguenza la pace come impossibile. Abbiamo bisogno, dunque, di metterci in ascolto attento della Parola di Dio che smaschera le menzogne del nostro cuore per conoscere e amare la verità che ci rende liberi.

Possiamo riflettere sul testo del Vangelo di Luca soffermandoci su tre aspetti espressi con un verbo, un avverbio, un sostantivo: vegliare, oggi, bambino.

Anzitutto il verbo “vegliare”: «C'erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge». I pastori sono sentinelle che scrutano la notte per vedere quando spunterà l’aurora e finirà la paura. Mettersi alla loro scuola significa imparare a vegliare quando nella nostra vita si insinuano logiche di paura che ci portano a dimenticare che «la guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male» (Papa Francesco, FT 261).

Per costruire la pace tutti possiamo fare qualcosa, trasformando la paura dell’altro in opportunità di incontro. Nella nostra città di Firenze ancora oggi il problema dell’emergenza abitativa tende ad aggravarsi. Sarebbe ipocrita pensare di delegare la soluzione di questo problema unicamente alle istituzioni. Lasciamoci piuttosto contagiare da quegli esempi positivi di accoglienza di cui sono stati capaci alcuni nostri concittadini, come certe persone rimaste sole che hanno deciso di andare a vivere insieme, liberando un appartamento per metterlo a disposizione di chi non aveva un alloggio. Oppure ad alcuni anziani che hanno fatto spazio per accogliere nella loro casa uno studente o una studentessa che non avevano la possibilità di pagare l’affitto di un appartamento o la retta di uno studentato. Oppure a chi si è fidato nel dare in affitto una casa ricorrendo alla mediazione di un’associazione che si è fatta garante dell’inquilino.

La seconda parola sulla quale possiamo riflettere è l’avverbio “oggi”. L’angelo dice ai pastori: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”. Si tratta di una parola molto cara all’evangelista Luca che la impiega molte volte, dall’inizio alla fine del ministero di Gesù. Sulla croce Gesù dice al buon ladrone: “In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso” e prima nel dialogo con Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, aveva detto: “Oggi devo fermarmi a casa tua”. I pastori per la mentalità del tempo erano considerati impuri. Non avendo la possibilità di accedere al culto del tempio erano in una situazione irreversibile di peccato e di maledizione.

L’oggi della salvezza per loro, come per noi, consiste proprio nel lasciarsi amare ed accogliere laddove sentiamo di non meritarlo. Questo ci aiuta a spogliarci da tante presunte sicurezze (denaro, gloria, potere) e ad avere l’audacia del disarmo.

Papa Giovanni XXIII palava più di sessant’anni fa della necessità di un disarmo integrale: che richiede di «adoprandosi sinceramente a dissolvere, […], la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia» (PT 63).

Quando Giorgio La Pira definì la Pacem in terris il “manifesto del mondo nuovo” non intendeva utilizzare una iperbole retorica, voleva descrivere una situazione di fatto.

"Nell’era atomica è da folli pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". (n. 67). C’è una ragionevolezza fenomenologica della pace, perché l’era atomica ci dice che la riduzione della terra a deserto è nelle possibilità dell’uomo.

Non è ragionevole, allora, permanere sull’orlo dell’abisso, “infatti – dice papa Leone nel messaggio per la giornata internazionale della pace 2026 -, la forza dissuasiva della potenza, e, in particolare, la deterrenza nucleare, incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza".

Occorre lottare contro la paura che paralizza e contro la sfiducia. Mi rivolgo soprattutto ai giovani: resistete a tutto ciò che vi anestetizza dal dolore delle vittime e a tutto ciò che vi diseduca dalla pratica della giustizia, del diritto e della fiducia e rifiutate tutto ciò che vi addestra e abitua alla guerra. Ben a ragione il papa ha tuonato – sempre nel messaggio di Capodanno - contro il “riallineamento” educativo: "invece di una cultura della memoria, che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza". Sono parole molto forti che non possono e non devono passare inosservate. Chiedo a tutti gli educatori e ai docenti nelle scuole di vigilare. Noi educatori, infatti, dopo la vergogna di cui parlavo prima, siamo i primi a non doverci allineare per non lasciare ancora soli i bambini e i giovani a credere e a costruire quella pace che ci è stata data, ma che non abbiamo adeguatamente custodito.

La terza parola riguarda il segno del bambino che viene offerto ai pastori: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. La debolezza del segno offerto

ai pastori è l’annuncio del modo con cui Gesù salva: non con la potenza dei potenti, ma con il dono di sé, rivelandoci come la tenerezza sia più forte di ogni potere.

La tenerezza è disarmante, forse per questo Dio si è fatto bambino e con amore e per amore si è affidato agli uomini, fidandosi a tal punto da diventare piccolo, consegnandosi alla nostra fragilità.

Nel Natale sperimentiamo Dio che si affida all’uomo e l’uomo che, davanti a un Dio bambino, ritrova il coraggio di affidarsi a Dio. Possiamo essere anche noi così innamorati di Dio da fidarci di lui, così liberi di cuore da affidarci a lui, così umani da accogliere un Dio che si è fatto bambino per abitare in mezzo a noi. È il mio augurio per questo Natale.

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